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C’È LA GUERRA, DOMINA LA CENSURA

C’È LA GUERRA, DOMINA LA CENSURA

C’È LA GUERRA, DOMINA LA CENSURA

In occasione del centenario di Caporetto vogliamo parlare della censura postale durante la grande guerra con un artricolo di Giorgio Roncari

Cinque miliardi! A tanto sono state calcolate le cartoline e le missive da e per il fronte, per l’interno e per l’estero che vennero passate alla censura durante la Grande Guerra. Un fenomeno che non trova uguali in nessun’altra delle nazioni belligeranti che, beninteso, usavano lo stesso provvedimento.
amp;La posta, anche quella militare, era - ed è - soggetta alle convenzioni dell’UPU [Ufficio Postale Universale], organizzazione internazionale con sede a Berna sorta il 9 ottobre 1874 con l’intento di coordinare in un unico ordinamento il caotico e complesso sistema dei servizi postali adottati nei vari stati. Uno degli articoli basilari riguardava la censura, vietata in tempo di pace, ma attuabile, sebbene disciplinata, durante i conflitti.
amp;In Italia nel marzo 1915, ancor prima di dichiarare guerra, alcuni decreti riformarono l’apparato postale, il personale civile delle Regie Poste venne militarizzato, dotato di una divisa specifica e messo alle dipendenze dell’esercito che assunse il controllo totale delle missive tra militari e civili e viceversa. Demandati ai comandi militari tutti i poteri in materia, il 22 maggio 1915 il Re firmò la legge n. 22 inerente la censura postale, pubblicata sui giornali del paese due giorni dopo. Anche la «Cronaca Prealpina», quotidiano di Varese, si adeguò e il 24 maggio 1915 pubblicò:
«LA CENSURA SULLA CORRISPONDENZA PRIVATA - LA FACOLTÀ DI APRIRE LE LETTERE SANCITA CON DECRETO REALE. - Roma, 23 notte:
Vista la legge 22 maggio 1915 numero 671 che conferisce al Governo del Re poteri straordinari,
visti gli articoli 9, 10, 11, 12, 13, 31, 72, 74 del testo unico delle leggi postali approvate con regio decreto 24 dicembre 1899 N. 501, udito il Consiglio dei Ministri, sulla proposta del nostro Ministro segretario di Stato per le poste ed i telegrafi, di concerto coi Ministri degli Interni, degli Affari Esteri, delle Colonie, della Guerra e della Marina, abbiamo decretato e decretiamo:
Il Governo del Re ha facoltà, a derogare dalle disposizioni sugli articoli 9, 10, 11, 12, 13,31, 72,74 del testo unico delle leggi postali:
a) di aprire per mezzo di ufficiali dell’esercito e dell’armata o di funzionari civili espressamente delegati le corrispondenze chiuse affidate alla posta, ovunque dirette, per accertare se siano in esse contenute notizia concernenti le forme, la preparazione e la difesa militare dello Stato, di procedere in caso affermativo al sequestro di dette corrispondenze e promuovere a carico dei mittenti le sanzioni di cui alla legge 21 marzo 1915 N. 273;
b) di sospendere il servizio dei pacchi postali spediti da privati; di sospendere l’invio dei giornali e delle opere periodiche che sogliono essere spedite di seconda mano. Ordiniamo che il presente decreto, ecc. ecc.»[1].
Nei giorni successivi seguirono una serie impressionante di regole da osservare concernenti la spedizione di missive, raccomandate, pacchi inferiori ai 3 kg che, ricavabile ancora dalla «Cronaca Prealpina» del 26 maggio 1915, nell’indirizzo, non dovevano riportare l’indicazione della località di stanza del soldato destinatario, «essendo variabilissima tale residenza», ma sostituirlo con un generico Zona di Guerra declinando le generalità, il grado, il reggimento, la compagnia e l’eventuale reparto speciale di appartenenza, oppure la nave d’imbarco per il personale della Marina. Era anche proibito includere francobolli e marche con valori monetari di qualsiasi genere, vietata la stenografia, nonché scritture criptate o alfabeti cifrati.[2]
Per motivi di sicurezza ai soldati fu negato di usare cartoline civili riproducenti località, ma vennero riforniti di cartoline postali appositamente stampate, da inviare in franchigia, ovvero senza affrancatura ma timbrate dall’unità militare d’appartenenza, nel numero di tre alla settimana, se avessero voluto spedirne altre, oppure scrivere lettere, avrebbero dovuto pagarsi il francobollo e questo anche per scoraggiarne l’uso visto che il controllo richiedeva il dispendio di parecchio tempo. Ben presto però queste cartoline postali presero a scarseggiare e allora i vari reparti supplirono stampando cartoline in proprio. Venivano accettate anche cartoline illustrate che dovevano però rappresentare soggetti patriottici e di propaganda come è stato possibile verificare visionando della corrispondenza conservata da privati valcuviani.
La censura postale fu attuata sia sulla corrispondenza militare sia su quella civile. La posta militare faceva capo a quattro Direzioni, una per Armata che, però, col proseguire del conflitto vennero raddoppiate con l’aggiunta di un Ufficio presso il Comando Supremo a Udine e uno nella Zona Carnia. A comandare ognuna di queste Direzioni era un ufficiale tecnico col grado di maggiore o capitano che aveva, come sottoposti, ufficiali di grado inferiore a capo dei vari reparti nei quali erano articolate. Anche i quatordici Corpi d’Armata disponenvano di un ufficio di posta militare, così come le quarantuno Divisioni, tutte sezioni campali, cioè con strutture e apparecchiature smontabili in modo da poter essere rapidamente smantellate per seguire lungo il fronte l’unità da cui dipendevano. Il contingente adibito a tale servizio ammontava a 1107 addetti che aumentarono poi di un centinaio nel 1917.
Questi organismi delle grandi unità, effettuavano il lavoro di raccolta, una prima censura sulle cartoline in franchigia e il trasporto delle missive dal fronte ai centri di smistamento militare che si trovavano a Milano, Treviso, Genova e Bologna dove veniva effettuato il grosso di controllo e censura. Le frasi o le parole compromettenti venivano oscurate con inchiostro di china applicando il timbro «VERIFICATO PER CENSURA», quelle non adeguate alle regole venivano trattenute. I provvedimenti, in quei casi, potevano essere molto pesanti anche nei confronti dei civili. I sacchi di posta, poi, passavano agli uffici postali civili per la consegna ai destinatari.
Le preoccupazioni dei comandi era, oltre quella di evitare di fornire notizie utili al nemico, quella di non lasciar trapelare nulla sulla dura vita del fronte, sulle interminabili battaglie e carneficine che i soldati, nei loro scritti, potevano raccontare alle famiglie così da minare gli entusiasmi patriottici e gettare nell’angoscia il paese. La censura era finalizzata anche a evitare diserzioni o resa al nemico da parte dei soldati nella speranza che la prigionia fosse meglio del fronte dove ogni giorno vi era un’ecatombe. Anche le cartoline dei prigionieri erano censurate: dapprima dal nemico poi dalla Croce Rossa Italiana alla quale giungevano via Svizzera tramite la Croce Rossa Internazionale.
Il numero delle cartoline in franchigia spedite quotidianamente dalla “Zona di Guerra” oscillò dal milione e mezzo ai due milioni e mezzo e nell’estate 1917 si arrivò fino a quattro milioni e settecentomila ai quali si deve aggiungere la quantità delle lettere. Dopo Caporetto ci fu un enorme accumulo di corrispondenza da controllare con forti ritardi per la qual cosa si preferì distruggere la posta che non si riusciva a esaminare. Stessa eliminazione subirono quei pacchi mandati dalle famiglie ai loro cari in prigionia che non si riusciva a ispezionare, una quantità accatastata nei vari uffici che nel marzo del 1918 raggiunse le 17 tonnellate.
Le lettere che arrivavano dal fronte, venivano ispezionate a Treviso e la loro lettura richiedeva necessariamente più tempo. Il lavoro del censore consisteva in: aprire le buste, bollare il foglio della corrispondenza con il proprio numero identificativo, ispezionare la busta per accertare eventuali scritti interni specie sulle alette gommate di sigillatura e sotto il francobollo, quindi rinchiudere le buste con fascette prestampate con la dicitura «VERIFICATO PER CENSURA» o simili. La capacità di ogni censore era di 200 - 250 lettere giornaliere a fronte di una quantità smisurata di scritti, cosìcché spesso gli uffici si intasavano e l’invio delle missive veniva ritardato, fattore che, a lungo andare, generò sentite proteste. 
La grande quantità di missive derivava dal fatto che la consolazione maggiore per un soldato, il quale poteva morire il giorno successivo, era comunicare con i parenti e aspettare notizie da casa, una consuetudine quasi giornaliera che ingolfò i centri di censura. Fu calcolato che complessivamente negli uffici di Posta Militare, tra la Zona di Guerra e il Paese e viceversa furono smistate oltre 4 miliardi di corrispondenze in franchigia oppure ordinarie, 170 milioni di raccomandate, 80 milioni di vaglia, 60 milioni di telegrammi.
La posta interna aveva un controllo analogo. All’inizio del conflitto tutta la fascia confinante con la zona di guerra del Veneto, del Friuli unitamente a Como, Sondrio, Lecco, Milano, Novara, alle provincie romagnole, alle piazze militari di La Spezia, Brindisi, Messina e Reggio Calabria ebbe una censura particolarmente accurata. In seguito tutto il Nord venne controllato dagli uffici di posta interna ospitati dalle prefetture. Le lettere, la posta raccomandata, quella assicurata e i telegrammi subivano un controllo più accurato.
Anche la posta estera era soggetta a censura e ogni centro controllava la corrispondenza in base alla destinazione: Bologna era competente per i paesi neutrali, a Milano veniva concentrata quella passante dalla Svizzera, a Genova da e per le Americhe, anche a Campione e Ponte Chiasso vi erano delle sezioni di frontiera.
Dalla censura non scappò certo la Valcuvia, come si evince dalla corrispondenza di quel periodo intercorsa tra la ventenne gemoniese Giuseppina Arioli ed il fidanzato in guerra Mosè Nava, militare della provincia di Bergamo, conosciuto quando il suo reparto aveva effettuato delle esercitazioni a Gemonio, circa 2.000 tra lettere e cartoline quasi tutte verificate dalla censura militare e ora conservata in un archivio privato. Ecco alcuni passi di una lettera scritta dal soldato Nava: «29 giugno 1915 […] In quanto alla tua paura a manifestare certe cose per la censura, è una cosa giusta perché in questi momenti non si scherza […] Difficile vedersi nel corrente anno! Non pensare di venire tu, qui, ci voglion tutti i permessi! [...] Il giorno 24 fu precisamente la festa del reggimento e dopo essere stata celebrata la messa al campo dal cappellano del reggimento, il dopo pranzo vi fu un piccolo trattenimento di giochi. [3] Mentre si stava celebrando la messsa, si facevan delle fotografie, ora le stanno stampando a Milano e non appena pronte te ne manderò una copia ! Tu speri presto che la censura abbia a cadere! Non illuderti, la censura finchè vi sarà la guerra vi sarà sempre. Pazienza, vuol dire che anche quando andrò al fronte ci accontenteremo di riceverle anche con la censura, basta riceverle […]»[4]
La censura fu in vigore fino alla fine della guerra e in alcune zone delle terre redente, ovvero le provincie assegnate all’Italia dal Trattato di Versailles, ai confini con l’Austria e con la nascente Jugoslavia, la censura postale continuò fino al dicembre 1920.

GIORNALI COSTRETTI TRA CENSURA E PROPAGANDA
«Arriva la guerra in paese, e quindi ci sono bugie a iosa» diceva un vecchio proverbio tedesco risalente agli inizi dell’Ottocento e per fare ciò bisognava imbrigliare chi dava le notizie ovvero i giornali, il mezzo più avanzato d’informazione del tempo per i quali i vari governi riservarono la censura più rigida. Per chi voleva fare giornalismo, quelli della prima guerra mondiale furono anni difficili.
La manipolazione delle notizie era comune in ogni stato belligerante: lo scopo era creare propaganda e agitare gli animi per esaltare la gente. La guerra doveva apparire gloriosa, sacra e allo stesso tempo cruenta così da celebrare l’eroismo singolo che coinvolge di più l’opinione pubblica. Bisognava tenere acceso l’odio e il risentimento verso il nemico, denigrarlo, descriverlo come crudele e rozzo e, nel contempo, esaltare la dignità e il patriottismo nazionale così da creare un fronte interno favorevole alla guerra.
In Italia il 23 maggio 1915, alla vigilia della dichiarazione di guerra, venne decretato il divieto di pubblicare notizie troppo specifiche come l’andamento delle operazioni militari, l’avvicendamento ai comandi, il numero di morti e feriti. I giornalisti inviati di guerra, rigidamente selezionati, dovevano ottenere un salvacondotto e poi assicurarsi i permessi dai vari comandi per muoversi nelle zone di manovra e, una volta conseguiti tali concessioni, dovevano scrivere di fatti sostanzialmente inefficaci dal punto di vista strategico. L’«Avanti», organo del Partito Socialista, giornale anti interventista, meno conforme alle ordinanze, non ebbe mai il permesso di inviare cronisti al fronte. I censori ogni notte, prima di dare il placet alla pubblicazione, leggevano ogni riga (lavoro immane) e gli articoli non consoni alle ordinanze venivano censurati cosicché spesso, mancando il tempo per correggerli o sostituirli, le pagine presentavano larghi spazi bianchi.
Non si dovevano narrare i veri fatti della guerra, ma darne una versione edulcorata e mitica; celebrare il valore dell’esercito e lo stoicismo del soldato con notizie del genere «si direbbe che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite ricevute», come scriveva Luigi Barzini sul «Coriere delle Sera» parlando dei feriti trasportati nelle infermerie. Barzini poi in privato si sfogava con il direttore Albertini criticando aspramente i comandi che puntavano i cannoni alle spalle dei soldati che andavano all’assalto per intimorirli e spronarli.
«Il Popolo Varesino», foglio democratico e meno ligio alle regole, esasperato dagli interventi censori, il 19 Settembre 1917 uscì completamente bianco, solo la testata e un polemico chiarimento in prima pagina: «La Censura ci ha tagliate oltre cinque intere colonne e fra queste tre sonetti di Try Ko Kumer! Noi per dignità nostra e dei lettori rinunciamo anche a quel poco che essa ha creduto, bontà sua, di conservarci tartassato e cincischiato. Mandiamo quindi ai lettori il foglio in niveo candore, perchè sul bianco fantastichino le opportune riflessioni e ne traggano i giusti commenti. Rispettiamo così anche i contratti in corso, inviando agli abbonati la carta (oggi tanto preziosa) del giornale e adempiamo ai doveri della pubblicità. Salute e... arrivederci fra quindici giorni. La Direzione» [5]
Non si potevano scrivere i sacrifici, i pericoli e gli stenti dei soldati in trincea, dei prigionieri caduti in mani nemiche, delle fucilazioni per ammutinamento e diserzione, o considerati tali, di soldati, soprattutto meridionali che parlavano solo il loro dialetto e non capivano gli ordini in un altro gergo. Bisognava esaltare le vittorie e ignorare o minimizzare le sconfitte, e i giornali, malvolentieri, dovevano adeguarsi. La disfatta di Caporetto dapprima fu negata, poi davanti all’evidenza, venne ridimensionata e, infine, non potendo più frenare l’opinione pubblica, ci fu il ricorso all’esigenza di mantenere compatto il fronte interno. Anche con cronache edulcorate, le tirature delle testate schizzarono a livelli altissimi e questo perché ogni famiglia aveva qualcuno al fronte e la voglia di sapere era tanta. Anche le epidemie, come la Spagnola scoppiata verso la fine del conflitto, che fece centinaia di migliaia di morti, fu occultata: era vietato perfino suonare le campane ai funerali.
A lungo andare, però, il paese cominciò a intuire che dietro a quelle cronache entusiaste e quelle colonne bianche c’era una realtà ben diversa da quella che si voleva far credere, una realtà durissima e crudele, anche perché i soldati nelle rade licenze, o convalescenze, malgrado l’ordine di non raccontare nulla di quanto vissuto al fronte, parlavano, magari solo con i famigliari, narrando di disumane situazioni, di carneficine e di orrori. Racconti che passavano di bocca in bocca fra parenti e amici così che alla fine tutti ne venivano a conoscenza.
Erano sottoposti a censura anche gli articoli di cronache locali che parevano non essere così compromettenti, ne è una prova quanto la «Cronaca Prealpina» scriveva il 4 agosto 1917, rispondendo ad un reclamo dei lettori. «Da varie parti ci viene richiesto perché non abbiamo ancora parlato di avvenimenti di cronaca cittadina che sono già a conoscenza di molti. Dobbiamo però rammentare che la censura si esercita pure sulle notizie di cronaca anche se non rivestono carattere militare o politico, e che – sia pure senza che debbano apparire spazi in bianco – non dipende da noi se talune notizie di pura cronaca, non ci è dato di pubblicare.» [6]
Questo giornale, fra i primi, aprì la rubrica “Lettere dal fronte” dove venivano pubblicati gli scritti che i soldati inviavano a casa, scegliendoli tra i più retorici e in linea con i dettami.
Comunque, con scarse eccezioni, in tutti i paesi belligeranti, Stati Uniti compresi dove la libertà di stampa fu soggetta a misure fra le più restrittive, i giornali dovettero adeguarsi e ci vollero decenni prima che iniziasse una revisione della storiografia ufficiale. In Italia, bisognò attendere il secondo dopoguerra per vedere pubblicati libri, articoli, diari censurati rimasti negli archivi. Allora si apprese che cosa fosse stata veramente la prima guerra mondiale: il massacro di un’intera generazione, l’arroganza e l’imperizia di generali e ufficiali, l’eliminazione misteriosa di qualcuno di loro, gli smisurati sforzi per scavare gallerie e fortificazioni nelle montagne, il fetore delle trincee fra liquami e pidocchi, le immani fatiche per trasportare cannoni e armamenti in cima alle vette da difendere, la bestialità dei combattimenti, le orrende scene di mutilazione e sventramento, la fame, le sollevazioni, le proteste, le fraternizzazioni con i soldati nemici, le decimazioni, i suicidi disperati, le disumane condizioni dei prigionieri.
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NOTE
[1] Legge 22 maggio 1915, N 671 detta “dei pieni poteri” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale N 126 del 26 maggio 1915. Cfr: La censura sulla corrispondenza privata - la facoltà di aprire le lettere sancita con decreto reale in «Cronaca Prealpina», 24 maggio 1915.
[2] Cfr: L’indirizzo della corrispondenza diretta ai militari, in «Cronaca Prealpina» 26 maggio 1915.
[3] Accluso alla lettera vi è lo stralcio del giornale «Il cittadino di Brescia» che parla della manifestazione.
[4] Lettera manoscritta conservata nell’archivio di Gianni Pozzi.
[5] Cfr «il Popolo Varesino», 19 Settembre 1917. Try Ko Kumer era lo pseudonimo del poeta dialettale Jemoli Speri Della Chiesa (Varese 1865 – 1946) di ideali repubblicani.
[6] La cronaca e la censura in «Cronaca Prealpina», 4 agosto 1917.

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