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LA BATTAGLIA DI S. MARTINO

LA BATTAGLIA DI S. MARTINO

TRATTO DAL LIBRO 'CUVIO LA VALCUVIA E I VALCUVIANI NELLA STORIA' DI GIORGIO RONCARI, EDITO DALLA PRO LOCO CUVIO, 2002.

IL 'GRUPPO 5 GIORNATE'
Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e la grande confusione che si creò, nella nostra zona arrivarono militari in fuga provenienti da ogni dove, ex prigionieri di guerra alleati, fuggiaschi di ogni razza e condizione. C’era chi si disperdeva abbandonando armi e munizioni come il raggruppamento di soldati che, stanchi ed affamati, transitarono da Montegrino il giorno dopo l’armistizio;[1] chi riparava in Svizzera come i reparti della Finanza di stanza alle caserme di confine o come il “Savoia Cavalleria” espatriato al completo, uomini, animali e armi, il 12 settembre a Clivio;[2] e chi cercava rifugio in montagna come il numeroso contingente comandato dal colonnello Renato Commento che, proveniente dall’Autocentro di Brescia, trovò riparo al Cuvignone, sul Monte Nudo. Questi militari avevano in dotazione una sessantina di automezzi, parecchio materiale bellico, coperte e vettovaglie che presero a barattare con la popolazione.
Conosciuto questo movimento i tedeschi decisero di agire. Furono i primi a prendere provvedimenti perché i fascisti, ancora confusi, stavano cercando di ricostruire le loro forze attorno alla vecchia Milizia. Il 23, reparti della Confinaria e di SS. si portarono in Arcumeggia, dove, in una spianata nelle vicinanze dell’Alpe Cuvignone, sorpresero il comandante con una pattuglia e dopo una breve sparatoria catturarono cinque militari due dei quali feriti. Il resto del contingente, allertato dagli spari, riuscì a fuggire assieme al Commento anch’egli ferito. I tedeschi sequestrarono gli automezzi, le cui condizioni erano tali da non essere più in grado di funzionare, pertanto il recupero fu lento e difficile.[3] Questa azione è ampiamente descritta nel diario della Guardia Confinaria tedesca di Varese, che i partigiani recuperarono durante un’azione nel marzo’44.[4]
Anche sul monte S. Martino si rifugiarono una dozzina di militari tra cui i tenenti Germano Bodo e Dino Cappellaro, agli ordini del tenente colonnello Carlo Croce. Si trattava degli ultimi uomini rimasti del numeroso contingente di soldati del presidio dio Portovaltravaglia che, dopo aver peregrinato nelle montagne del luinese senza ben sapere dove andare, il 19 settembre trovarono un valido rifugio nelle fortificazioni di Valalta dove trasportarono molto del materiale bellico in deposito nella caserma di Porto, decisi a non schierarsi coi fascisti e all’eventualità, di resistere ad oltranza all’occupante tedesco.[5]
Il ten. col. Carlo Croce aveva cinquantuno anni. Era nativo di Roma ma risiedeva a Milano dove, in tempo di pace, aveva un’azienda di carrozzelle e attrezzature per disabili. Aveva guadagnato i gradi sul campo durante la prima guerra mondiale, quando, da bersagliere semplice, dimostrando un coraggio non comune, ferito, decorato e più volte promosso, terminò il conflitto col grado di Capitano. Venne richiamato quale ufficiale di complemento alo scoppio della guerra ‘43 e l’8 settembre si trovava a Portovaltravaglia sul Lago Maggiore, in qualità di comandante il 3° Regg. forte di 1.100 uomini e 35 ufficiali.[6]
Non era quindi un ufficiale di carriera, bensì un civile che le vicende della guerra avevano riportato a vestire la divisa con un grado assai alto. Convinto come molti altri dell’arrivo degli alleati in Val Padana prima dell’inverno, aveva probabilmente la speranza di arrivare al fine della guerra senza scontrarsi coi tedeschi.[7] Vedeva nella propria resistenza un nuovo risorgimento, per cui battezzò la formazione “Esercito Italiano - Gruppo 5 Giornate – Monte San Martino ”.[8]
Del piccolo gruppo del S. Martino vennero subito a conoscenza gli antifascisti del Comitato Liberazione Nazionale di Varese costituitosi clandestinamente dopo il disorientamento iniziale,[9] e già a metà settembre in Valalta salirono, per avere contatti con il Croce, Luigi Ronza, direttore delle Officine del Gas di Varese e responsabile dei comandi militari di liberazione, e Giacinto ‘Gigino’ De Grandi.[10]
Stando ad un’intervista rilasciata a Liliano Frattini nel ‘60, da un anonimo patriota che occupò un “…posto preminente in una azienda della nostra città”, non dovette essere un colloquio confortante perché il Croce “si dimostrò molto reticente nei loro riguardi e dubbioso. Sospettava di loro credendoli emissari fascisti e per questo non confidò mai il numero dei suoi uomini e la consistenza della sua forza…, la sua fede politica attingeva motivi dalla monarchia e questo fatto comportava prese di posizioni alquanto strane e non sempre comprensibili.”[11]
Nonostante questo primo abboccamento non certo positivo, (del resto non si può credere che il colonnello fosse tanto sprovveduto da fidarsi di chiunque in tempi tanto ambigui dove il delatore poteva celarsi in ogni individuo) gli uomini del CLN decisero ugualmente di intensificare i contatti col Croce e da Varese presero a rifornire i partigiani. Coordinatori furono Antonio De Bortoli, mobiliere, che raccoglieva viveri, armi, vettovagliamento, medicinali e altro, nel suo magazzino in piazza Battistero a Varese, a pochi passi dalla caserma ‘Muti’, sede della Milizia, Battista Brunati ed il prof. Silvio Bracchetti il quale organizzò una rete di assistenza impegnando i suoi giovani studenti delle scuole medie.[12] L'organizzazione poteva contare anche sull’appoggio di Calogero Marrone “… un meridionale impiegato al comune di Varese che forniva…tessere anonime, carte d'identità, certificati di residenza per salvare militari, ebrei e partigiani.”[13]
A fine settembre in Valalta si recò il magg. Girolamo Laneve Albrizio, colui che fino all’ultimo e più intensamente tenne legami con il S. Martino il quale così ricorda l’episodio: “Un mattino insieme all’ing. Ronza ci recammo a visitare il Croce … [il quale] fu esplicito nelle sue vedute e nei suoi intendimenti. Egli giudicava l’arrivo degli alleati in Val padana prima del prossimo inverno: allora sarebbe sceso su Varese e ingrossando le fila su Milano. … Alla domanda se nel frattempo i tedeschi lo avessero attaccato egli rispose deciso: ‘Resisteremo ad oltranza’. Non voleva sapere di partiti politici; pensava a Garibaldi e popolo … Gli accenno ad una azione coordinata con altri gruppi in costituzione e si oppone: non vuole dispersione di forze, gli uomini e le armi siano inviati tutti a lui. Ronza e io scendiamo a Varese: Siamo entrambi preoccupati…”[14]
Il Croce progettava di affiancare al gruppo stanziato in Valalta, un nucleo sulla Vetta e delle bande mobili di disturbo al di là della vallata pronte a contrastare alle spalle i tedeschi in caso di attacco. Riteneva quindi che il presidio dovesse avere sufficienti uomini, viveri e munizioni anche per un lungo assedio. I comandi militari del C.L.N. oltre che timorosi per le idee del Croce furono critici anche sul rifugio scelto, ritenendolo di facile assedio, "una postazione vulnerabile" come la definì il generale Zambon.[15]
Queste valutazioni, rivelatesi poi esatte, furono però disattese sia per la determinazione del Croce, che si diceva pronto ad usare anche i sassi per difendere i suoi forti, sia per la convinzione generale dell’imminenza dell’attacco finale degli Alleati e la conseguente conclusione della guerra.[16].
La presenza del manipolo ribelle richiamò altri sbandati e in breve tempo gli uomini aumentarono in modo impressionante. Il gruppo alla fine del mese di settembre era forte di circa 80 unità. Il comandante aveva denominato il monte ‘Zona d’Onore’, adottando il motto ‘Non si è posto fango sul nostro volto”.[17] Era una formazione prettamente militare, dove si veniva ammessi solo se disposti a seguire la disciplina da caserma e dopo aver giurato di combattere fino alla morte per la libertà.[18]
Arrivarono soldati di ogni arma e da ogni dove, meridionali isolati, ex prigionieri alleati, inglesi, sudafricani, francesi, greci, russi, polacchi ed anche uno svizzero. Vi era pure qualche civile ed alcuni pompieri di Milano non disposti a rispondere al bando d’arruolamento nazifascista.[19] Venivano accompagnati in Valalta da uomini del CLN o dai paesani della valle, con grande pericolo, ed il comandante registrava gli arrivi in un brogliaccio d’arruolamento.[20]
Il 22 ottobre arrivò il capt. Enrico Campodonico, della contraerea di Milano, con 120 moschetti, munizioni in grande quantità, medicine, materassini, coperte e materiale vario. Sarà, dopo il Croce, l’ufficiale più alto in grado presente sul S. Martino, e compilerà un quaderno di memorie.[21] Da quel memoriale si conosce la formazione del gruppo nella sua massima espansione: 180 uomini circa di cui un certo numero stranieri.
Aiutante maggiore del ten. col. Carlo Croce (Giustizia era il suo nome di battaglia) era il ten. Germano Bodo (Lupo). Il gruppo era diviso in tre Compagnie: la 1°, di circa 60 uomini, comandata dal tenente francese Georges Vabre (Brevi) che aveva come subalterno il sottoten. Franco Rana; la 2a Compagnia, formata anch’essa da circa 60 uomini, agli ordini del capt. Enrico Campodonico (Campo), con subalterni i tenn. Dino Cappellaro (Barba) ed Alfio Manciagli (Folco); la Compagnia Comando, forte di 50 unità circa, sottoposta al sottoten. americano Carlo Hauss con addetto il marchese ten. Guelfo Teodoro Pizzato (Capitano Piatti). Aggregato al gruppo come cappellano era anche il ten. don Mario Limonta[22] in stretto rapporto con don Antonio Gatto, vicario di Duno, che aveva anch’egli contatti militari e spirituali con i giovani del gruppo.[23]
L’armamento risultava discreto, infatti tutti gli uomini erano armati di moschetto e metà anche di pistola, con una riserva di 20.000 colpi, 700 erano le bombe a mano e 10 le mitragliatrici Breda con 6.000 proiettili di scorta.[24] Vi erano alcune automobili e camioncini e pure due muli che un partigiano aveva ironicamente battezzato Adolfo e Benito. Ad un certo punto Laneve Albrizio, fece pure giungere una radio rice-trasmittente che però non poté essere usata perché il cifrario segreto giunse solo la vigilia della battaglia.[25] Scarseggiavano invece i viveri ed il vettovagliamento, mancavano brande, coperte, vestiario, medicinali e, per procurarseli, i partigiani organizzarono varie ‘missioni’, come le definiva il Croce.
Si trattava di azioni veloci compiute da pattuglie ai danni di caserme, depositi o fabbriche. Il ten. Cappellaro, con un gruppo di 15 uomini, recuperò a Portovaltravaglia 250 coperte, 300 pagliericci, 200 materassi, indumenti vari ed altro ancora. L’appuntato dei carabinieri Perversi disarmò con 5 uomini, la guardia di finanza di Luino, requisendo materiale bellico e viveri. Il ten. Bodo prese contatti al confine svizzero con agenti inglesi per avere approvvigionamenti. Un camioncino ed un’auto vennero prelevati dal cap. Campodonico con sette uomini, da una caserma dei vigili del fuoco a Milano. Sette giovani comandati dal ten. Manciagli, presero da un’altra caserma dei vigili del fuoco, a Seregno, un camioncino e diverse coperte.[26] Alcuni partigiani travestiti da soldati della Miliza asportarono scarpe al Calzaturificio Martegani di Gornate Olona. Sette giovani dichiarandosi partigiani del S. Martino si fecero consegnare 25 forme di formaggio dalla ditta Castelli di Valganna.[27]
Tra i partigiani c’èra anche chi, con isolati colpi di mano, effettuava azioni ai danni di negozianti e singoli valligiani, Don Somaini, parroco di Cuvio, nel suo diario annota: “Tra loro o, forse fingendosi di loro, qualcuno fa dei colpi di mano: chiedono a mano armata. Il paese è un po’ in pensiero. Succedono dei furti: c’è chi accusa i poveretti nascosti lassù.” [28] Fra i più indisciplinati si distinse Rinaldo Cerini di Duno, le cui ‘imprese’ furono segnalate dai carabinieri di Luino e registrate anche dai tedeschi. Malgrado ciò i partigiani non vennero molestati, scendendo liberamente nei vari paesi, a contatto con la gente che vedeva già i nazisti ed i repubblichini come nemici e non pochi furono coloro che diedero collaborazione ed aiuti al Croce. Alcune denunce per furti erano messinscene concordate per giustificare il materiale mancante in caso di controllo tedesco, così come quella al calzaturificio dei fratelli Martegani che diedero spontaneamente 300 paia di scarpe e poi simularono la rapina.[29] Il Croce, a firma T. Colonnello Giustizia, rilasciava biglietti di ricevuta intestati al ‘Gruppo Cinque Giornate’, nei quali si garantiva che a suo tempo, presentando tale dichiarazione, avrebbero ottenuto “il pagamento di quanto dovuto”.[30]
SI PREPARA LO SCONTRO
Notato il fenomeno, i fascisti presero a muoversi ed a raccogliere informazioni. Sul S. Martino salivano e scendevano giovani, soprattutto del posto. Alcuni erano elementi senza fede e poca coscienza: vedevano e poi raccontavano. Gli agenti fascisti ne approfittarono ed avvicinandoli con lusinghe e denari, ottennero preziose informazioni. Non poche furono le spie e gli informatori ed il più noto fu Francesco Calastri un diciannovenne di Luino, in forza al gruppo che, scoperto, fu condannato a morte. Il Calastri, per motivi ignoti, fu solo ferito dal Pizzato, incaricato dell’esecuzione, e così poté continuare a dare indicazioni precise sulle posizioni dei partigiani e guidare i nazifascisti nelle azioni della battaglia.[31]
Don Somaini scrive di tale Fedele, delatore locale, il quale, successivamente im-prigionato dai tedes-chi, venne giustiziato a Milano. Si trattava di Fedele Cerini, fratello del già citato Rinaldo, un boscaiolo sempliciotto abitante poco discosto da Valalta, che la voce popolare vuole es-sersi venduto ai fascisti. Scoperto e condannato dal Croce, se la cavò con una buona dose di botte perché don Gatto, vicario di Duno, si oppose alla sua eliminazione. Per ironia della sorte, sarà fucilato il 19 dicembre del ‘43 con altri 7 compagni all’Arena di Milano per rappresaglia dopo l’uccisione del federale Aldo Resega.[32]
A metà ottobre i fascisti cominciarono a prendere provvedimenti. Dapprima arrestarono Ronza, poi il 22 ottobre, a seguito di un’irruzione nel suo magazzino, fu la volta di De Bortoli, catturato assieme a Bracchetti, mentre Brunati riuscì a sfuggire. La decimazione dell’organizzazione che forniva aiuti, fu un colpo notevole per gli uomini del S. Martino che si trovarono a doversi arrangiare da soli nel procurarsi rifornimenti attuando una serie di azioni.[33]
Anche i tedeschi presero a muoversi e nel loro diario annotarono: “30 ottobre – Colloquio a Cernobbio con il Servizio di Sicurezza, (SS) intorno alla situazione della provincia di Varese e sulle misure di difesa da mettere in atto”.[34] Cominciarono così a spedire pattuglie di ricognizione intorno al monte. In una di queste perlustrazioni si imbatterono, a Mesenzana, in una camionetta di partigiani. Era il ten. Pizzato che tornava alla base e per sfuggire non esitò a far fuoco uccidendo una SS e ferendone altre due, di cui uno gravemente. Il suo autista, meno deciso di lui, venne invece catturato e portato al comando SS di Como.[35]
Da questo momento i tedeschi iniziarono le operazioni d’assalto alle basi partigiane. Il giorno successivo, il commissario Knopp, comandante della Confinaria di Varese, prese accordi con le SS di Como consegnando un rapporto sulle postazioni partigiane con tanto di schizzi precisi, sugli effettivi e sull’armamento. Il 5 novembre annotarono che “…i capi più fidati della Milizia italiana hanno chiesto di fare il necessario per combattere la banda.” [36]
Il 6, i partigiani si scatenarono a Caldè saccheggiando varie case ed effettuando un sabotaggio nella galleria di Punta Lavello dove l’esplosione di un ordigno causò l’interruzione della ferrovia.[37]
Il 9, ci fu un nuovo sabotaggio al ‘Casone Lucchina’ nei pressi della stazione di Cassano, per opera di un gruppo di partigiani che assalirono una macchina diretta a Luino nella quale viaggiavano tre SS. L’agguato provocò una breve sparatoria nella quale restò ucciso un capitano tedesco, un altro ufficiale rimase ferito, mentre il terzo, un graduato, fu catturato dai partigiani e portato in vetta.[38]
Questo è l’episodio più controverso di tutta la vicenda del S. Martino. Vi è molta confusione su chi abbia effettuato l’attacco, sull’identità dell’ufficiale ucciso e se l’azione sia stata un’iniziativa autonoma. Su quest’ultimo punto pare indubbio che il gruppetto partigiano operò senza avere ordini dal Croce il quale reagì duramente con una condanna a morte, anche questa non eseguita.[39] Dell’ufficiale ucciso, si sparse subito la voce fosse un parente di Goering e forse era vero visto il grande schieramento di forze messe in campo dai tedeschi e l’accanimento posto nello sgominare la banda.[40]
Chi fosse l’autore dell’agguato è ancora un dilemma. Il Campodonico dice esserne tale Rossini, accompagnato da alcuni compagni da lui convinti. Aldo Curti, partigiano valcuviano fiancheggiatore del S. Martino, nel suo memoriale è un po’ più preciso citando certo Cerini detto Rossin, indicato da qualcuno come quel Rinaldo Cerini già segnalato in precedenza. Altri invece individuò certo Amedeo Rossin di Pressana S Sebastiano (VR), presunto partigiano del ‘Gruppo 5 Giornate’, il quale, per intricare ulteriormente la faccenda, catturato successivamente a Milano, venne anch’egli fucilato all’Arena di Milano assieme a Fedele Cerini fratello di Rinaldo. Quest’ultima interpretazione però ha l’aria d’essere frutto di una serie di malintesi ed equivoci; è più convincente la prima versione perché più particolareggiata ed avvalorata anche da affermazioni di altri partigiani oltre che dalla voce di popolo, e la gente dei paesi conosceva il Cerini che, ricordiamolo, era di Duno. Questi, pare su segnalazione di un famigliare, verrà arrestato in dicembre dai tedeschi e a guerra conclusa, preferirà emigrare in altri luoghi.[41]
Comunque sia andata, quello fu l’episodio che fece decidere tedeschi e repubblichini a muovere contro la banda armata del San Martino. L’11 fu tenuta dal prefetto di Varese, una riunione congiunta fra tedeschi e fascisti per concordare l’attacco contro i partigiani.[42] Il 12 un aereo, probabilmente tedesco, sorvolò la Valcuvia con lo scopo di meglio localizzare le postazioni dei ribelli, esageratamente stimati in 500 uomini.[43]
I partigiani conoscevano questi preparativi e si organizzarono per la difesa scavando trincee e elevando barricate. I fascisti, contattando persone vicine alla resistenza come Brunati, che ovviamente negò il suo coinvolgimento, o il segretario comunale di Cuvio, Francesco Odoni, tentarono inutilmente un’estrema opera di persuasione sul Croce affinché consegnasse le armi ed abbandonasse la posizione.[44]
Anche gli uomini del CLN di Varese cercarono di convincere il colonnello a lasciare la postazione. Ci provarono il gen. Bortolo Zambon e soprattutto il Laneve Albrizio che propose anche un’azione di disturbo sul versante opposto della valle, a Cavona, così da permettere ai partigiani di potersi sganciare al momento opportuno. Ma il Croce, si dimostrò irremovibile, disposto a resistere fino al sacrificio per il suo ideale di Italia libera.[45] Del resto non era un ufficiale da strategie, ma un soldato di coraggio e come tale si comportò. Probabilmente non tutti gli uomini erano d’accordo nell’accettare battaglia ed alcuni, soprattutto gli stranieri, abbandonarono la zona all’ultimo momento.
LA BATTAGLIA
Fu deciso di attaccare le posizioni dei ribelli il 14 novembre. La notte antecedente, da Milano giunsero alcune unità militari; un battaglione di polizia (SS.) agli ordini del col. Braunschweig, che dovrà sopportare l’urto maggiore, reparti di avieri appiedati (Flak), milizie fasciste e carabinieri che unitamente alla confinaria di Varese, accerchiarono la zona d’azione. Si trattava di circa 2500 uomini con al seguito carri armati leggeri, mitragliatrici, cannoncini e 300 autocarri. Il comando fu posto nelle scuole di Rancio.[46]
La mattina del ‘14, domenica, i tedeschi, dopo aver sospeso le corse tranviarie ed ogni comunicazione, effettuarono un rastrellamento nei paesi della zona da Casalzuigno a Brissago. Tutti gli uomini tra 15 e 60 anni, prelevati, furono ammassati in luoghi di concentramento: nelle chiese di Rancio e Cassano, in un locale delle Marianne, dove fu segregato anche il parroco di Casalzuigno, e nelle scuole di Arcumeggia. Saranno rilasciati solo il mercoledì 17. Più fortunati furono gli uomini di Cuvio perchè, avvisati per tempo dai carabinieri del paese, poterono nascondersi nei boschi.
I partigiani nella nottata si erano preparati a respingere l’attacco disponendosi sulle vie d’accesso e alle installazioni. La I^ compagnia (Vabre) fu schierata nelle gallerie inferiori a guardia delle strade di Mesenzana e Cassano; la Compagnia Comando (Hauss) fu posta in Valalta a difesa delle gallerie alte, dei depositi e della strada da S. Michele; la II^ compagnia (Campodonico) fu disposta a protezione della caserma, delle fortificazioni e delle trincee che controllavano le strade Cuvio-Duno e Arcumeggia-S. Antonio.[47]
Il complesso fortificato del S. Martino comprendeva la caserma e le casematte poste in Valalta, una valletta dove confluivano le strade che salivano dal fondovalle, sovrastata quasi a strapiombo dalla cima del monte. Qualche centinaio di metri più sotto, verso Mesenzana, nella massa rocciosa del colle, erano stati ricavati i forti; quattro spaziose postazioni d’artiglieria in caverna, con ampie feritoie. Dai forti si dipartiva un lungo ed angusto budello (gallerie alte), che si snodava nel sottosuolo fino a sbucare in uno stretto vallone dominato da tre lati da alte rocce a perpendicolo, dove esistevano altre postazioni. Il cunicolo riprendeva oltre la gola e dopo un altro lungo tratto sotterraneo (gallerie basse), usciva sopra Cassano, raggiungibile tramite camminamenti. Lungo tutto il tragitto delle gallerie si aprivano numerose feritoie e garitte dalle quali si poteva dominare l’accesso al monte dal settore Mesenzana-Cassano. Altre gallerie più brevi, bunker, trincee e camminamenti completavano il sistema fortificato.
Nel pomeriggio, pattuglie di tedeschi cominciarono a salire la montagna proponendo di parlamentare. Ci fu un primo concitato scambio di opinioni fra il ten Hauss ed un ufficiale tedesco, poi i partigiani, temendo in questo comportamento una manovra per guadagnar posizioni, aprirono il fuoco. Fu il Pizzato col suo drappello a iniziare gli scontri, i tedeschi risposero ma furono respinti anche per l’intervento del Cappellaro. Le scariche terminarono in serata quando, i tedeschi per evitare imboscate, preferirono arretrare le loro linee.
Nella notte i partigiani presidiarono con una pattuglia di dieci uomini agli ordini del ten. Manciagli, le posizioni di San Martino Vetta, raggiungibile anche da Arcumeggia. Avere la vetta voleva dire dominare dall’alto, infatti i tedeschi ne capirono l’importanza e sferrarono l’attacco maggiore da quel versante. Sempre nella nottata, in previsione di un massiccio assalto, don Limonta visitò le varie postazioni benedicendo i combattenti.[48]
Il ’15, nelle prime ore del mattino, i tedeschi attaccarono da Duno. Appena sopra il paese, in località Croce, furono accolti con una nutrita scarica di mitraglia che fece numerose vittime, da una pattuglia appostata dietro a cataste di legna.[49] Contemporaneamente altri attacchi vennero portati da Mesenzana e da S. Michele. La battaglia divampò furiosa ma gli assalitori furono respinti. Verso le dieci, tre aerei giunsero in soccorso degli attaccanti, bombardando le fortificazioni partigiane, colpendo la caserma e varie postazioni all’aperto. La difesa fu eroica e, sebbene senza contraerea, venne abbattuto un velivolo. Lo spostamento d’aria del bombardamento colpì anche il Cappellaro che, frastornato e malconcio ma non ferito, riuscì ugualmente a porsi in salvo.
Verso mezzogiorno giunse sulla vetta il contingente tedesco proveniente da Arcumeggia; erano un centinaio di uomini, dotati di cannoni, ai quali si congiunsero altri gruppi provenienti da S. Michele, arrivati dopo aver risalito i costoni della montagna, e la piccola pattuglia del Manciagli, pur difendendosi strenuamente con l’unica mitraglia in dotazione, poco poté contro la preponderanza di uomini e mezzi. Sei furono i partigiani catturati, così come registrato nel diario tedesco. I tedeschi, conquistata la Vetta, poterono direttamente bersagliare la zona sottostante delle casematte, la quale fu tenuta dagli uomini del Campodonico finché un altro manipolo di tedeschi, impossessatosi dell’altura dietro la caserma, li strinse fra due fuochi. Per non cadere prigionieri, furono costretti a ripiegare nei forti in caverna. Cominciava ormai ad oscurare. Quando i tedeschi, seguendo la ritirata dei ribelli, si presentarono alle imboccature, furono accolti da una nutrita scarica di fuoco che li obbligò ad arretrare lasciando morti e feriti.[50]
La Compagnia Comando, difese la strada da S. Michele per l’intera giornata, respingendo a varie riprese l’avanzata dei tedeschi. Perse alfine le posizioni, il ten. Hauss cercò inutilmente di convincere il Croce alla resa. Probabilmente la sua nazionalità americana lo metteva in una situazione meno sfavorevole di quella dei ribelli italiani.[51]
La I^ Compagnia era totalmente sistemata nelle gallerie basse, dominanti la strada di Mesenzana tramite una lunga serie di feritoie e aperture presidiate ognuna, da due o tre giovani. Collocata in posizione defilata e in qualche modo distaccata dal grosso, era quella che comprendeva più stranieri. Il Campodonico, scrive che molti uomini di questo reparto abbandonarono la posizione a volte ancor prima di essere attaccati.[52] In effetti, già nel pomeriggio molte postazioni si presentavano sguarnite e il Wabre salì una prima volta al comando a riferire la situazione. In serata, l’ufficiale inviò una staffetta per conoscere ordini, ma dato che questa non riuscì a passare il vallone che divideva le gallerie, ormai preso di mira dai tedeschi, partì di persona.[53]
Al sopraggiungere del buio i tedeschi preferirono defilarsi trincerandosi nella caserma o sulla vetta. La situazione era ormai disperata per i partigiani; circondati e braccati da ogni parte, con le munizioni scarseggianti e la montagna che bruciava. A questo punto, il Croce decise la ritirata. Dopo avere effettuato alcune sortite ed aver fatto saltare l’autoparco, verso le diciotto, la cinquantina di uomini rimasti, feriti compresi, cominciarono a scendere le gallerie.
Il Colonnello fu l’ultimo ad abbandonare la postazione dopo aver fatto saltare l’imbocco delle caverne per coprirsi la fuga. Sbucati a Cassano, malgrado una luminosa ed ostile luna piena, superarono lo sbarramento di milizie e carabinieri posti sulla provinciale, e via Ferrera, Cunardo, raggiunsero la Svizzera a Ponte Tresa. Nessuna resistenza poterono opporre, davanti alle armi, i due soldati italiani di presidio al ponte.[54]
I miliziani ma soprattutto i carabinieri saranno accusati dai comandi tedeschi di aver favorito la ritirata dei ribelli, i quali, con un più deciso intervento, sarebbero stati catturati in numero molto maggiore. In effetti i carabinieri, fedeli al Re, anche nelle settimane precedenti avevano dimostrato di tollerare i partigiani del S. Martino. Che i carabinieri fossero poco convinti dell’azione militare, lo dimostra la reclusione nelle scuole di Arcumeggia operata dai tedeschi, di un graduato dell’Arma riluttante.
UN’ESEMPLARE PUNIZIONE
Furono una cinquantina i partigiani fatti prigionieri, per la maggior parte della Ia compagnia sbandatasi già nel pomeriggio. Alcuni furono percossi e fucilati sul posto tra cui il ten. Manciagli, altri portati nelle cantine delle scuole di Rancio ed atrocemente torturati dalle SS. come il ten. Hauss, l’altro ufficiale catturato. Chi non morì sotto le sevizie ricevette una pallottola nella nuca ed i cadaveri, in parte riportati sul luogo della battaglia, vennero gettati nei dirupi. I sopravvissuti furono tradotti nelle carceri di Milano.
Immediatamente dopo la battaglia, una quindicina di uomini di Duno, paese che più d’altri era sospettato di aver dato aiuti ai partigiani, furono rastrellati dai tedeschi e condotti essi stessi nelle cantine di Rancio, dove, con terrore, poterono vedere qualcuna di quelle crudeltà. Quadri raccapriccianti escono dalle loro testimonianze; una dozzina di uomini sottoposti ad atrocità di inumana ferocia, giacevano rantolanti sul pavimento in pozze di sangue e brandelli d’abito, alcuni spellati a nerbate, altri con gli arti spaccati a bastonate. L’intervento di un tenente delle brigate miliziane, oppostosi ai tedeschi con autorevolezza, permise ai terrorizzati dunesi di essere liberati e di sfuggire alle violenze.[55] I tedeschi, per mascherare l’eccidio, obbligarono poi tre donne rastrellate sul S. Michele, a ripulire dal sangue e dagli orrori la cantina.[56]
Nel loro diario, i tedeschi annotarono di aver avuto solo sette morti ma si tratta di una menzogna. La gente dei paesi, per un giorno intero li vide salire e scendere con i loro camion a recuperare vittime, feriti e materiale bellico, dissimulando il carico sotto fascine e teloni. Si disse fossero più di 200 e si suppose pure, che molti rimasero colpiti dal bombardamento aereo.
Durante l’attacco vennero uccisi dai tedeschi anche due civili, un giovane di Domo, Benedetto Isabella, sorpreso a S. Michele e ricordato a guerra finita da un edicola;[57] ed un’anziana donna in Cavojasca, località sopra Mesenzana, colpita mentre raccoglieva castagne.[58] Altre persone furono picchiate perché ritenute collaborazioniste. A Roggiano fu catturato uno studente sfollato che, portato a Mesenzana, riuscì a sfuggire. Per rappresaglia una decina di uomini vennero rastrellati e minacciati di morte se non si fosse trovato il fuggiasco. Ripreso al fine, pare sia stato giustiziato perché ritenuto un partigiano. Centinaia, comunque, sarebbero gli episodi e le vicende significative o marginali legati a quelle giornate drammatiche. Valga ricordare gli aiuti ed i nascondigli forniti ai partigiani fuggiaschi dalla gente dei vari paesi che nemmeno le minacce naziste e la paura di spiate, che ci furono, riuscirono a fermare.
Il giovedì 18, i tedeschi, non contenti di aver sgominato la banda, decisero di radere a zero le fortificazioni del S. Martino. Tre grossi ordigni vennero portati sul monte e nel pomeriggio furono fatte saltare le installazioni di Valalta e la chiesetta sul culmine. Impressione destò fra le popolazioni il fatto che in mezzo al putiferio che distrusse la caserma, restasse intatta la statua di una madonnina in una cavità attigua (ancora visibile).[59] Compiuto quest’ultimo sabotaggio, i tedeschi se ne andarono lasciando solo alcuni reparti che abbandonarono la zona il 21.
Partiti anche gli ultimi contingenti, cominciò da parte della popolazione, istruita dai vari preti, la ricerca delle salme dei partigiani e così scrive il prevosto di Canonica don Mario Bedetti: “Subito se ne ritrovarono tre appena sopra Cuveglio che furono trasportati al cimitero di Cuvio e collocati sopra il tavolo di anatomia. Qualche giorno dopo ne furono trovati altri sei che, collocati sopra un carretto ed accompagnati da un cappellano militare di Varese, furono trasportati al cimitero e deposti nella cappella. Più tardi ne furono scoperti altri dieci. Altri otto, trovati nel versante settentrionale della montagna, furono trasportati al cimitero di Mesenzana. A tutti questi se ne devono aggiungere altri otto che molto più tardi furono scoperti dal Capitano Lazzarini sepolti ed incalzati in una sola buca sopra la frazione Cucco, vicino alla stazione della ferrovia elettrica Molino d’Anna, sotto Bosco Valtravaglia, in tutto trentacinque.” [60]
A questi, Don Somaini ne aggiunge un altro trovato “molto tempo dopo a proposito del quale si disse trattarsi di una spia”.[61] I resti di un ultimo cadavere ritrovati molti anni dopo, nel ’79, vennero identificati come quelli di Celso Galetti di Luino, disperso durante la battaglia che porta così a 37 il numero dei partigiani uccisi in quei tragici giorni.
Don Somaini, ancora, annota come i primi nove recuperati furono fotografati da don Lisiade Bernini, un sacerdote dimorante in Vergobbio, “…erano in istato pietoso: semivestiti, laceri cruenti. Qualcuno aveva le mani legate....”.[62] Gli ordini erano di seppellire i morti in una fossa comune, ma don Bedetti raccolse fra la gente la cifra sufficiente per dare una cassa ad ognuno, celebrando pure una messa solenne per i morti di tutte le guerre. Tutto ciò irritò i tedeschi i quali, ricorda Don Ulderico Belli, coadiutore di Canonica, dopo qualche giorno, “irruppero nella chiesa con una jeep e, mitra in pugno, provocarono un fuggi fuggi generale.”[63]
Don Bedetti, quasi ottantenne, venne interrogato dal Questore per due ore poi, per evitare un probabile arresto, preferì allontanarsi per un paio di mesi. Anche don Somaini ed altri preti della zona subirono interrogatori da parte dei nazi-fascisti, per la solerzia dimostrata nel tumulare le salme dei ribelli e celebrare messe. La gente, malgrado l’attenzione del regime, onorò da subito quegli eroi e, ancora, don Somaini scrive che durante il periodo repubblichino “le tombe dei caduti di San Martino furono costantemente ornate con fiori freschi”.[64]
Dei partigiani sfuggiti all’accerchiamento, una cinquantina si disperse riuscendo ugualmente a porsi in salvo; il gruppo consegnatosi alle guardie svizzere, fu confinato in un campo di raduno a Bellinzona. Qui l’intesa si ruppe ed alcuni ufficiali si ribellarono al Croce e alla sua autorità. Note di biasimo risultano nel ‘ruolino’ del colonnello a carico di Cappellaro, Pizzato, Campodonico e Bodo, accusati di essersi ammutinati l’11 dicembre ‘43.[65]
Il colonnello Croce, effettuò svariati e brevi rientri in Valtellina con l’intenzione di crearvi formazioni partigiane, finché il 13 luglio ’44, in un ennesimo tentativo di tornare in Italia, dopo uno scontro a fuoco, venne catturato con sei compagni da una pattuglia della Milizia confinaria, in Val di Togno, sopra Sondrio. Trasferito a Bergamo, morì il 24 per le ferite riportate. Al momento dell’arresto aveva con sé l’intera documentazione riguardante, il ruolino del ‘Gruppo 5 Giornate’, con l’elenco dei nominativi e gli indirizzi, ed altre carte compromettenti. La documentazione sarà recuperata dai partigiani valtellinesi dopo la liberazione.[66] Il Croce dopo il 25 aprile '45, verrà portato nel cimitero vecchio di Cuvio assieme ai suoi partigiani.
Il tenente Pizzato, rientrato nella primavera del ’44 dalla Svizzera per cercare contatti con la resistenza in Valtellina, fu catturato. Divenuto collaboratore dei tedeschi contribuì a parecchi arresti. Venne eliminato dalla Gestapo nei pressi di Pino Lago Maggiore, nell’aprile dello stesso anno, probabilmente in un tentativo si fuga oltre confine.[67] Pure il capitano Campodonico rientrò dalla Svizzera ma catturato, forse in seguito a delazione del Pizzato, finì a Mauthausen fino alla liberazione. Il tenente Bodo rientrò nel giugno del ‘44 per unirsi a bande partigiane della Valtellina. Il tenente Cappellaro rimase internato in Svizzera.
Il tenente Hauss, preso durante la fuga dal San Martino e percosso, dopo un lungo periodo di carcere a Milano, dove divideva la cella con Mike Bongiorno, fu anch’egli confinato in Germania; liberato dalle truppe alleate rientrò in Italia col grado di capitano dell’esercito americano. Il tenente Wabre, rientrato in Italia in un’occasione col Croce, fu catturato e deportato in Germania; dopo la guerra combatté ancora nel Vietnam e c’e gente che lo ha rivisto nel comasco.
Il cappellano don Limonta, sorpreso con una carta topografica della Svizzera, fu sospettato di spionaggio e quindi internato in un campo di punizione dagli stessi confederati.[68] Il tenente Rana, fermato nell’ottobre ’44 a Varese fu inviato in Germania, al suo rientro subirà un processo a Varese perché sospettato di aver dato informazioni ai tedeschi.[69]
Fra i sostenitori, Ronza e Bracchetti furono deportati in Germania e liberati a fine conflitto. De Bortoli, trasferito nel campo di raccolta di Fossoli, fuggirà durante il suo trasporto in Germania e confluirà nelle bande partigiane dell’Ossola. Brunati fu catturato nell’aprile ’44 dalla Gestapo, pare su delazione del Pizzato, deportato a Gusen sarà liberato dagli americani nel maggio ‘45.[70] Don Gatto, il giovane prete di Duno, fu incarcerato a S. Vittore e sottoposto a continui interrogatori. Laneve Albrizio continuerà, invece, la lotta al nazismo in altre zone, fino alla liberazione. Anche Marrone verrà arrestato e deportato in Germania dove morirà nel campo di concentramento di Dachau.[71]
Altri furono quelli del S. Martino che finirono internati, il Campodonico ne riporta la sorte di tre: “il Mitragliere Lupano (deceduto), Sergio De Tomasi (rientrato in Italia), Mondelli Elia (rientrato in Italia in condizioni fisiche assai menomate, anche a cagione di torture subite durante l’interrogatorio)”.[72]
L’episodio cruento del S. Martino fu una delle prime battaglie della resistenza, un incitamento alla ribellione dal giogo nazifascista. Si può affermare che la formazione del Croce non rientrava in nessun raggruppamento politico ed organizzato dalla resistenza, agì solamente di propria iniziativa o costretta dal nemico, quando la lotta di liberazione non era ancora organizzata e la cognizione di guerriglia partigiana non assimilata. Il fatto che i tedeschi volessero creare un duro monito per tutti i ribelli, può giustificare in parte il drammatico epilogo. Era dai tempi di Garibaldi che la guerra non faceva la sua devastante comparsa nella nostra zona e la gente dopo quasi un secolo, ritornò a vivere sulla propria pelle gli orrori e la paura.

Ventanni dopo, Il 13 ottobre del ’63, fu inaugurato il Sacrario sul S. Martino dove vennero traslate le salme dei caduti dell’eroica battaglia, assieme a quelle del loro comandante, il colonnello Croce. Fu una manifestazione imponente dove furono stimate in tremila le persone accorse in vetta al monte, fra le quali la vedova del Colonnello. Presente anche la Filarmonica di Cuvio. Parteciparono e parlarono innumerevoli autorità e capi partigiani; a rappresentare il Governo era il sottosegretario alla Sanità, Natale Santero, che, reduce dal Vajont dove alcuni giorni prima si era compiuta la più grande sciagura dell’Italia repubblicana, portò i saluti del sindaco di Belluno.[73]

NOTE
[1] ANTONIO DE BORTOLI: Il Barba - Autobiografia di una lotta “, Jaca Book, Varese 1977, pp 16, 17
[2] ALDO MONGODI: “Quel settembre del ‘43 passarono in Svizzera anche gli uomini del famoso Savoia Cavalleria” su ‘La Prealpina’ 24 set 1983. Espatriarono ‘15 ufficiali, 642 sottufficiali e soldati, 316 cavalli e 9 muli ... Li accompagnavano otto autocarri, due automobili, due motofurgoncini, una moto, un rimorchio, trentadue biciclette, quattro carrette e due barocci. … Poi ancora armi e munizioni in gran numero e una quantità enorme di viveri e generi di conforto.’
[3] ‘VECCHIO ALPINO’: “S. Martino” su ‘Veritas’ (Mensile di Casalzuigno diretto da Don Alberto Marchesi) anno 1, 7 ott 1946. (1a pt) - cfr BIANCA FO GARAMBOIS: “Il col. Commento al S. Michele” [stralcio da ‘Io da grande mi sposo un partigiano’ Einaudi Ed. Torino, 1976] in ‘La Resistenza... - 1943’ cit, pp 138 ss. – cfr “Attestazione riguardante il patriota Giovanni Giracca”, Archivio di Stato Varese, Arch. CLN Prov. Varese, Settore Militare 1945 – 1946, Cart. 15, Fasc. Commissione per la revisione dei certificati per i partigiani e patrioti. Il Giracca partecipò alla sparatoria cooperando “…brillantemente per salvare sia il Comandante Commento quanto il milite Cerini Mario colpito ad una gamba”.
[4] “Cronaca delle azioni di guerra della guardia di frontiera tedesca in Italia - Commissariato distrettuale di Frontiera G. Varese “ allegato a ANTONIO DE BORTOLI: “A fronte alta”, Tip. G.C.B. Varese 1975, pp 198. Antonio De Bortoli pubblicò le sue memorie per la prima volta nel 1975 col titolo "A fronte alta", a cura di Francesco Luciano Viganò. Nell'appendice figuravano anche il diario della Guardia di Frontiera tedesca di stanza a Varese, ed il primo brogliaccio compilato dal Croce. Una seconda edizione, riveduta, venne pubblicata nel 1977 da Jaca Book con il titolo "Il Barba - Autobiografia di una lotta" dove però non figuravano più né il diario tedesco né il brogliaccio del Croce.
[5] B. S.: "14-16 novembre 1943 - Il col. Giustizia ha narrato la battaglia del S. Martino" su ‘La Prealpina’ 14 nov 1946. Il servizio giornalistico è tratto dalle memorie del colonnello svizzero Antonio Bolzani (erroneamente riportato come Conzani) pubblicate nel libro ‘Dietro la rete’, dove compare una lunga relazione dedicata all’avventura del Croce appresa dalla viva voce del comandante stesso. Quella del Bolzani è una delle prime testimonianze date alla stampa dei fatti del S. Martino.
[6] Idem – cfr F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 688
[7] GIROLAMO LANEVE ALBRIZIO: “Nel trentesimo anniversario della liberazione - Le formazioni partigiane clandestine che operarono nella nostra provincia.” (2° pt). su ‘La Prealpina’ 27 feb 1975, p 7. La relazione del Laneve Albrizio, (Biancardi nome in codice), comparve in 4 puntate sulla Prealpina del 26, 27, 28 feb, 1 mar, 1975 e ristampata in ‘La Resistenza... - 1943’ cit.
[8] ENRICO CAMPODONICO: “Il San Martino e la sua battaglia” (con nota storica di Luigi Ambrosoli) - a cura dell’Amm. Prov. di Varese e del Comitato onoranze ai caduti del S. Martino in occasione del 37° anniversario della battaglia - Varese 16 nov 1980, p 15.
[9] A. DE BORTOLI: “Il Barba ...” cit, pp 15 sgg. Fin dalla sua costituzione il CLN fu presieduto dall’ing. Camillo Lucchina. Il CLN creò dei Comandi Militari (che dal giugno ‘44 assunsero il nome di ‘Corpo Volontari della Libertà’) col compito iniziale di contattare e inquadrare soldati sbandati, cercando di dissuaderli dal varcare il confine o comunque recuperare e nascondere vestiario, armi e munizioni abbandonate. All’inizio, il comando militare, venne affidato all’ing. Luigi Ronza, e dopo la cattura di questi, al magg. Laneve Albrizio del SIM (il servizio informazioni militari badogliano), allontanato nel marzo ’44 dal Lucchina per divergenze. Dissoltosi, venne riattivato come C.V.L. all’inizio del ’45 ed affidato all’avv. Maurizio Belloni. [LILIANO FRATTINI: “Le origini del C.L.N. di Varese” (Intervista all’ing. Camillo Lucchina) in ‘La Resistenza ... – 1943’ cit, pp 73 ss]
[10] SILVIO BRACCHETTI: “S. Martino e i suoi eroi” su ‘L’Ammonitore – Gli Insorti’ anno II, n. 21, 20 apr 1946, p 1. Il Bracchetti afferma che il Croce venne contattato “...già nella penultima domenica di settembre” [NdA: il 19 settembre]
[11].LILIANO FRATTINI: “Il Colonnello Croce fu un eroe puro” su ‘Il Nuovo Ideale’ 2 apr 1960, p 2. L’intervista di Liliano Frattini, era indirizzata a “...due grandi uomini della Resistenza Varesina i quali per la loro modestia e sensibilità ci hanno pregato di omettere i loro nomi…”.
[12] S. BRACCHETTI: “S. Martino e i suoi eroi” cit – cfr BATTISTA BRUNATI: “Gli inizi della resistenza a Varese e l’attività dei partiti” su ‘La Resistenza... - 1943’ cit, pp 79 ss
[13] G. LANEVE ALBRIZIO: "Nel trentesimo anniversario ..."cit (1a pt)
[14] idem, (2a pt)
[15] B.S.: “14-16 Novembre 1943 – Il col. Giustizia..." cit – cfr A. DE BORTOLI: “Il Barba ...” cit, p 24
[16] A. DE BORTOLI: “Il Barba ...” cit, pp 19, 20
[17] E. CAMPODONICO: “Il San Martino …” cit, p 7
[18] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 690
[19] TAA di Carlo Manfredoni il quale, da Milano, saliva sul S. Martino per portare armi e viveri ed accompagnare uomini, sopratutto vigili del fuoco. Ha raccontato di essere rimasto bloccato sulla vetta nel momento della battaglia e di essere poi scappato al seguito dei partigiani.
[20] Questo brogliaccio o ruolino compilato dal col. Croce, recuperato dai partigiani della Valtellina e conservato da Raffaele Guerra di Milano, uno dei partigiani del ‘Gruppo 5 Giornate’, venne pubblicato in forma alfabetica, per la prima volta nel 1975 dal De Bortoli in appendice al libro “A fronte alta” cit, dopo verifica di alcuni partigiani del S. Martino. Nel 2001, verrà ripubblicato in forma corretta e senza le revisioni da Franco Gianantoni su “La notte di Salò (1943 – 1945) L’occupazione nazifascista di Varese dai documenti delle camice nere” (2 voll), Edizioni Arterigere Varese, pp 202 ss.
[21] Il capitano Campodonico compilò una relazione apparsa la prima volta in “Il Movimento di Liberazione in Italia” n 2, set 1949, rassegna bimestrale di studi relativi al Movimento di Liberazione (INMLI), Milano. Considerata per moltissimo tempo la più importante e accreditata fonte storica, è stata in parte aggiornata da pubblicazioni e ricerche successive.
[22] E. CAMPODONICO: “Il San Martino …” cit, p 7
[23] “Nella luce dei caduti sul Monte S. Marino” su ‘Corriere Varesino’ 17 mag 1945
[24] E. CAMPODONICO: “Il San Martino …” cit, p 8
[25] G. LANEVE ALBRIZIO: "Nel trentesimo anniversario ..."cit (1a pt) - cfr F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 690. Il collegamento si sarebbe dovuto iniziare con la frase in codice “Alice saluta Martino” ed Alice era la stazione radio alleata di Bari o di Algeri, mentre Martino era il gruppo partigiano.
[26] E. CAMPODONICO: “Il San Martino …” pp 7, 9, 12
[27] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 117
[28] Don ERMANNO SOMAINI “San Martino”, diario apparso su ‘Ropp de Bupp, mensile cuviese di informazione varia’, 1977 - cfr.[ F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, pp 120, 692]
[29] A. DE BORTOLI: “Il Barba ...” cit, p 178
[30] Foglio di ricevuta rilasciata al sig. Luigi Corti di Cuveglio per lavori di riparazione e traino con buoi, di un autocarro guasto. Biglietto in possesso dell’Autore in copia.
[31] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit p 13 Il Calastri dopo la Liberazione sarà condannato a morte, pena commutata in ergastolo, scarcerato dopo 7 anni, emigrò all’estero. [F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 692]
[32] Don E. SOMAINI “San Martino”, cit - Testimonianze concordanti della gente di Duno.
[33] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 120, dove è riportata la relazione del comandante della Milizia di Varese, Elia Caldirola. De Bortoli invece nelle sue memorie fa risalire il proprio arresto al giorno 10. [Il Barba ...” cit, p 34].
[34] “Cronaca delle azioni di guerra…” cit, p 207
[35] idem p 208 – cfr E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit pp 12, 13 - cfr A.M.[Aldo Mongodi] “Uno sparo un morto e poi l’inferno del San Martino” su ‘La Prealpina’ 9 nov 1983
[36] “Cronaca delle azioni di guerra…” cit, pp 208, 209
[37] idem, p 209 – cfr F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 120, dove l’assalto alla ferrovia e posdatato alle 14 del giorno 7.
[38] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 121. L’ufficiale tedesco ferito, fu ricoverato all’ospedale di Varese.
[39] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit, pp 12, 13
[40] A. DE BORTOLI: “Il Barba ...” cit, p 179
[41] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit, p 12 - cfr GIANFRANCO BIANCHI: “E’ necessario spogliare dai paludamenti retorici e dall’agiografia, la storia della resistenza” in ‘La Prealpina’ 8 dic 1981, p 5 – cfr TAA di Giovanni Roncari di Cuvio e altri testimoni. Amedeo Rossin non risulta nell’elenco originale dei partigiani redatto dal Croce, compare invece, ma con un equivoco punto di domanda, nel ‘brogliaccio’ revisionato e pubblicato da A. De Bortoli su “A fronte alta” cit. Sul S. Martino vi era, in effetti, un partigiano nativo di Pressana S. Sebastiano ma si trattava di Enrico Rinaldi rifugiatosi poi in Svizzera col Croce. Potrebbe essere questo accomunarsi confuso di ‘Cerini’, ‘Rossin’, ‘Pressana’, ‘Arena’ a indurre i sospetti su Amedeo Rossini, facendogli certamente un cattivo servizio.
[42] “Cronaca delle azioni di guerra…” cit, p 210
[43] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 122
[44] idem, p 693
[45] G. LANEVE ALBRIZIO: "Nel trentesimo anniversario ..."cit [III pt]
[46] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, pp 122, 123 – cfr “Cronaca delle azioni di guerra…” cit, p 210
[47] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit, pp 13, 14
[48] idem pp 14, 15
[49] FRANCESCA BOLDRINI: “La formazione partigiana ‘Cinque Giornate’ e la battaglia del S. Martino”, Presentazione storica della battaglia di S. Martino tenuta alle celebrazioni di Porto Valtravaglia il 9 novembre 2002
[50] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit,  pp 15, 16 – cfr “Cronaca delle azioni di guerra…” cit, pp 210 - 212
[51] “Primo brogliaccio…”cit, p233
[52] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit p 17
[53] TAA del partigiano Carlo Parietti di Mesenzana, la staffetta in questione, il quale ha affermato che dopo la partenza del Vabre, lui, il ten. Rana ed il serg. Grasso, rischiando il tutto per tutto, scesero a valle riuscendo a raggiungere Roggiano e sfuggire alla cattura.
[54] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit, p 17 - cfr F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 125
[55] TAA di Giuseppe Bresciani, uno dei prigionieri di Duno. I tedeschi sarebbero stati intenzionati anche spogliare dell’oro la statua della Vergine conservata nella chiesa parrocchiale.
[56] F. BOLDRINI: “La formazione partigiana ‘Cinque Giornate’…” cit. Le tre donne erano Anna Vagliani, Radegonda Lazzarini e Augusta Lazzarini.
[57] ALDO MONGODI: “Il primo caduto del San martino” su ‘La Prealpina’ 15 nov 1994.
[58] Questa sfortunata donna, ricordata dalla gente ma quasi del tutto dimenticata dalla storia, era Paolina Pollini in Cerini, madre di Fedele e Rinaldo Cerini. [cfr: “Larga eco in Valcuvia della celebrazione sul S. Martino” su ‘La Prealpina’ 16 ott 1963]
[59] La chiesetta che era già monumento nazionale, era stata restaurata nel 1913, e, per l’occasione, fu composto un Inno (documento fornitomi dal sig Giacomo Martinoli di Duno), sarà ricostruita nel ‘58, sulle linee architettoniche della preesistente.
[60] Don MARIO BEDETTI: “La battaglia di San Martino”, dai ‘Registri’, apparsi su ‘Cuveglio Informazioni’, n. un., dic 1977 e su ‘Voci Giovanili’, 1976. Don Bedetti fu prevosto di Canonica dal 1911 al 1951. Uno dei tre morti di Cuveglio, era il diciannovenne Luigi Lotti, rifugiato a Cuvio e salito sul San Martino il giorno prima dell’attacco tedesco, ricordato poi da un cippo. [GIORGIO RONCARI: “Luigi Lotti martire dell’ultima ora”, su ‘Terra e Gente’ cit, n 9, 2001-02, pp 93 ss] Per gli 8 del Cucco (di cui solo cinque riconosciuti) e onorati da un monumentino, cfr Aldo Mongodi :”Quella stele dimenticata” su ‘La Prealpina’ 22 nov 1994.
[61] Don E. SOMAINI “San Martino”, cit
[62] idem
[63] GIORGIO RONCARI: “Don Ulderico ricorda il S. martino” (memorie di don Ulderico Belli, al tempo coadiutore di Canonica) su ‘Notiziario della Comunità Parrocchiale di Comacchio’, n 26 autunno 1993, pp 10 ss
[64] Il 28 ottobre ’45, 27 salme vennero esumate e 13 partigiani furono identificati. Vennero poi tutti trasportati nel vecchio cimitero di Cuvio (dove ora vi è il centro sportivo), assieme alle spoglie del colonnello Croce, traslate da Bergamo.
[65] G. BIANCHI: “E’ necessario spogliare …” cit
Ebbi modo di conoscere il tenente Bodo nel  luglio 2003 sul S. Martino in occasione del 60° della battaglia. Un mese dopo, in tre telefonate mi rilasciò  un'intervista, e nel gennaio 2005 andai a trovarlo a Roma, nella sua casa di Monte Mario.
[66] G. BIANCHI: “E’ necessario spogliare …” cit – cfr GIANFRANCO BIANCHI: “Il comandante Croce non fu catturato dalle SS ma dalla Milizia confinaria” su ‘La Prealpina’ 15 nov 1981.
[67] GIANANTONI: “Fascismo…” cit, pp 690, 691
[68] E. CAMPODONICO: “Il S. Martino…” cit pp 17 ss
[69] Archivio di Stato di Varese, arch. CLN prov. VA, settore politico, attività politica 1945-46, cart. 123, fasc. 8. Atti gentilmente mostratimi dai sigg. Francesca Boldrini e Carlo Cattaneo.
[70] F. GIANANTONI: “Fascismo…” cit, p 689
[71] Per una conoscenza maggiore di questo martire, si veda: FRANCESCO GIANANTONI, IBIO PAOLUCCI: “Un eroe dimenticato” Edizioni Arterigere, 2003. Curioso è annotare come una nipote diretta di Calogero Marrone, Manuela Marrone, sia diventata la moglie del leader leghista Umberto Bossi.
[72] “Corriere Prealpino”, 17 mag 1945.
[73] “La Prealpina” 14 ott 1963. Torrente Vajont, 9 ottobre 1963, un'enorme ondata alta circa 200 m, dopo avere oltrepassato il coronamento della diga, si riversò nella sottostante vallata, distruggendo Longarone e altri centri minori, causando la morte di 2.000 persone.



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