‘IGNOTI MILITI’ – LA GRANDE GUERRA VISSUTA IN VALCUVIA
Una rievocazione di Giorgio Roncari
‘IGNOTI MILITI’ – LA GRANDE GUERRA VISSUTA IN VALCUVIA
L’INIZIO DELLA GUERRA
Il 1914, mentre continua la
Belle Époque e le potenze europee
portano avanti le loro scellerate schermaglie politiche e militari per
questioni di supremazia e nazionalismo, in Valcuvia e nel Varesotto inizia con
un grande freddo, gelano i laghi di Ghirla e di Varese. A Ghirla fra i tanti pattinatori
giunge anche il Conte di Torino, sul lago di Varese annegano due ragazzi
inghiottiti dal ghiaccio.
Alcune società di combattenti
e reduci tengono le loro feste mentre a Caravate ed Arcumeggia si plaude, con
sollievo, al ritorno di alcuni soldati dalla guerra di Libia combattuta un paio
di anni prima. La Cronaca Prealpina riporta con dovizia di particolari il
processo contro gli assassini del maggiore di finanza Gioacchino Silani annegato
l'anno prima nel lago a Laveno.
Ma l’evento che più attrae
l'interesse di tutta la popolazione della valle è la costruzione della tramvia
che vede la corsa di prova il 5 maggio 1914 sotto una pioggia torrenziale, e l’inaugurazione
ufficiale la domenica 14 giugno, col sole, con una doppia corsa dimostrativa a
cui partecipano molte autorità, sferragliando tra gente in tripudio a ogni
fermata, con le ragazze a gettare fiori, gli ottoni a suonare le loro musiche,
le varie società a presentare i loro gagliardetti e qualche prete che arriva
con l’asperges a benedire le vetture. La festa si conclude con un imponente
banchetto alla Canonica con 500 invitati.
Si tratta di un'opera attesa
da decenni sostenuta e voluta da Enrico Peregrini di Cuvio consigliere
provinciale a Como che non riesce a vederla conclusa perché è morto due anni
prima e ricordato in quello stesso giorno con un medaglione in bronzo di
Giuseppe Cerini apposto alla Canonica. A realizzare materialmente la tranvia è
stata l’impresa di Giovanni Paglia di Vergobbio. Era una conquista che mitigava
l’isolamento nel quale era stata lasciata la Valcuvia, tagliata fuori dalla
linea ferroviaria del Gottardo e solo sfiorata dalle Nord. In soli 35 minuti si
va da Cittiglio dove passano le Nord, a Molino D’Anna (14 km) dove c’è la
coincidenza per Luino o Varese. Uno sprazzo di Belle Époque anche in Valcuvia.
Su quell’entusiasmo, tre
settimane dopo viene messo in funzione il torpedone tra Orino e Varese, era il
29 giugno, proprio il giorno dell’attentato di Sarajevo. La gente, sebbene non
abbia grandi notizie, ha sentore di ciò che succede nel mondo e quello a tutti
sembra un regicidio come altri già successi, che problemi poteva mai avere la
Valle e la sua gente? E che ripercussioni poteva temere?
Una certa apprensione in più
la lascia la decisone dell’Austria di dichiarare guerra alla Serbia il 9 luglio
e i successivi interventi di Russia, Germania, Francia e Inghilterra fanno
capire che la situazione sta peggiorando. Infatti non passa molto e
cominciarono a tornare gli emigranti; per loro non c’è più lavoro nei paesi
d’emigrazione ora in guerra, tornano come possono e raccontano di cosa succede
là, del rischio di essere chiamati alle armi in un paese straniero diventato a
volte ostile. A Cittiglio ai primi di dicembre si sparge la voce che l’emigrante
del paese Severino Detona, è stato ucciso in Francia dai tedeschi invasori e
che la moglie è riuscita a ritornare al paese dopo un avventuroso viaggio. La
prima vittima di guerra della valle. Sono sempre di più quelli che ritornano anche
perché molte frontiere sono chiuse e non c’è più mercato. Alcune
amministrazioni danno inizio a qualche lavoro pubblico per dare un poco di sostegno
a questi disperati.
Anche da noi si accende il
dibattito se entrare in guerra o rimanere neutrali, e in caso di intervento con
quale alleato: la Francia e l’Inghilterra o l’Austria e la Germania con le
quali abbiamo un patto d’alleanza. Nelle piazze e nei circoli di molti centri,
anche nei nostri piccoli paesi, si tengono convegni dei vari partigiani ai
quali partecipa non solo il ceto benestante ma anche operai e contadini, comizi
dove a vote parlano oratori come Benito Mussolini, socialista interventista dimessosi
da direttore dell’Avanti, che parla a Varese nel dicembre, oppure
dell’irredentista trentino Cesare Battisti. L’irredentismo è molto sentito; il
fatto che Trieste e Trento siano ancora in mano agli austriaci, contro i quali
abbiamo combattuto tre guerre, è una causa che appassiona molti. A fianco dei francesi
c’è già una legione di volontari italiani, fra i quali i fratelli Costante e
Bruno Garibaldi, che combatte contro i tedeschi, tra loro svariati varesotti e
qualcuno della Valcuvia. Luigi Reggiori di Caravate, il 14 gennaio del ’15
trova la morte sui campi di battaglia francesi a 24 anni.
L’inverno passa tra gelate e
grandi nevicate, fino a un metro e mezzo. Il 16 gennaio un grosso terremoto
colpisce pesantemente Roma e l’Italia Centrale con enormi danni e molti morti.
Immediatamente si apre una sottoscrizione varesina a favore dei colpiti, quasi ogni parrocchia interviene e anche quelle valcuviane partecipano.
Al giungere della primavera
si capisce che anche l’Italia sarebbe entrata in guerra, lo si avverte dal
richiamo di molti giovani e da vari episodi come la requisizione del torpedone
e della linea Orino - Varese ordinata a metà maggio.
L’ITALIA IN GUERRA
Il 24 maggio 1915 la Prealpina,
così come tutti i quotidiani d’Italia, a caratteri cubitali, annuncia che il
giorno prima è stata comunicata dal governo, la guerra all’Austria-Ungheria e
il giorno dopo riporta i primi atti di ostilità nell’Adriatico. Nei giorni
successivi a Cuvio per primo e poi anche in altri paesi, viene istituito un comitato per
l’assistenza alle famiglie dei combattenti, si invitano le donne a lavorare la lana
preparando indumenti da inviare ai soldati per il prossimo inverno anche se c’è
la presunzione che la guerra finisca prima. Si pensa anche a possibili epidemie
e così Cuvio e Cabiaglio individuano un terreno a metà strada dove aprire un lazzaretto
nell’eventualità.
Parte della valle, per
eccesso di zelo, viene ritenuta a pericolo di bombardamenti aerei, nuova
disciplina militare sorta con questo conflitto e nei tre anni di guerra alcuni velivoli
verranno avvistati. Tre anni prima i valcuviani avevano visto il primo aereo
atterrare in valle, si trattava del colonnello Salvatore Calori di Vergobbio
sceso a salutare i parenti nei prati del paese, fatto che era stato immortalato
con una foto storica. Il Calori farà la guerra pilotando un aereo militare così
come Andrea Locarno di Orino che otterrà la Medaglia di Bronzo.
Partono per il fronte centinaia
e centinaia di giovani e meno giovani dai 21 comuni che allora formavano la Valcuvia, da una stima si calcola che
nei tre anni di guerra saranno oltre il migliaio: contadini, operai, benestanti,
parroci, sindaci e fin anche il pretore di Cuvio, avvocato D’Angelo. A volte
sono 4, 5, 6 fratelli chiamati contemporaneamente alle armi. Il 12 luglio si
viene a sapere che il soldato Luigi Felli di Casalzuigno è morto al fronte, è
il primo di una lunga trafila che con il continuare della guerra, getta nello
sconforto centinaia di famiglie e ogni comunità. Questo continuo stillicidio è
il rapporto doloroso che la Valcuvia ha con la guerra, di per sé una realtà
pressante ma lontana, raccontata come gloriosa dai giornali sottoposti a rigida
censura: solo notizie di gesta eroiche e conquiste epiche o di cronaca
spicciola come quella che ricorda come il 26 maggio del ’17 a causa del
maltempo straripa il Margorabbia, oppure l’organizzazione di qualche
manifestazione sportiva e qualche corsa ciclistica attraversa anche la valle
attirando tifosi perché il ciclismo era allora lo sport nazionale. Si può
scrivere anche che sono limitati i balli e pazienza se qualche mugugno si fa
sentire.
Pochissimi sono quelli che
ritornano per una licenza, magari agricola o per una convalescenza e quando lo
fanno non possono raccontare, pena la fucilazione, quello che si vive al fronte,
della disperazione delle trincee, delle crudeli decimazioni, dei soldati caduti
prigionieri, dei massacri in prima linea, dei corpi straziati, del freddo,
della fame. A guerra finita molti racconteranno ma molti altri preferiranno
tacere e cercare di dimenticare le brutture. Tanti ritorneranno scossi nella
psiche; verranno sbrigativamente battezzati ‘scemi di guerra’.
All’ingresso italiano nel
conflitto, la Valcuvia, con le valli limitrofe, viene inserita nella vasta zona
da fortificare sulla frontiera così da precludere i passi alpini convergenti su
Milano, massimo polo industriale, nell’ipotesi di un attacco tedesco dalla
Svizzera. Una linea difensiva che va dal Sempione alla Valtellina, su un fronte
di 150 km ma con uno sviluppo complessivo di circa 850 km di strade
camionabili, camminamenti, trincee e fortilizi. Era un vecchio progetto
militare accantonato a suo tempo per mancanza di finanze, ma ora, dopo
l’invasione tedesca del neutrale Belgio per aggirare le difese francesi, pareva
diventato indispensabile giudicando la Svizzera impotente all’eventualità di
un’azione simile. C’era anche il timore che la Svizzera, per due terzi di
lingua tedesca, avrebbe di sua iniziativa aperto le frontiere ai tedeschi o
agli austriaci.
A riguardo dell’invasione del
Belgio, a Cabiaglio succede un fatto curioso il 23 luglio, quando ad una
finestra compare una bandiera belga che viene confusa da molti per una tedesca,
simile nei colori ma in orizzontale, cosa che crea un certo risentimento e trambusto
tra i paesani e la cosa, non isolata del resto, è sintomatica di come la pensi
la gente.
L’intero sistema difensivo militare
che decenni dopo verrà convenzionalmente ribattezzato ‘Linea Cadorna’, costa
104 milioni di lire di allora, (circa 540 milioni di euro attuali). Vengono
costruite trincee e strade mulattiere che collegano postazioni, magazzini e
caserme poste in punti strategici tra cui il Monte La Nave, al Sette Termini,
sulla Martica, sul Campo dei Fiori e sul S. Martino. Quest’ultima montagna, con
le sue batterie cannoniere in caverna, magazzini, caserma, forti in galleria,
casematte, osservatori, camminamenti e trincee, ne è il caposaldo più
rinforzato. Alla sua realizzazione viene impegnata parecchia manodopera locale,
ragazzi, anziani e donne e per l’economia dei nostri paesi che oramai sta
languendo, è un aiuto prezioso.
Il generale Luigi Cadorna in
persona il 16 luglio del 1916, viene a ispezionare i lavori visitando la
caserma di Vallalta a lui intestata. Mons. Carlo Cambiano, vicario di Duno,
così sintetizza l’evento: “Do il benvenuto all'Illustre personaggio con due
parole di circostanza. Egli risponde riconoscente e mi stringe affettuosamente
la mano.” Si racconta che due donne del paese servono il tè al generale.
L’intera zona fortificata viene presidiata dalla 5^ Armata, ma nell’estate del ’17,
dopo la rotta di Caporetto i reparti vengono spediti d’urgenza di rinforzo sul
fronte veneto e la linea ormai diventata inutile, viene definitivamente
sguarnita.
Il 28 agosto 1916, in
reazione a ambigue prese di posizione tedesche nei confronti dell’Italia il
governo dichiara guerra anche alla Germania.
L’ossessione militare sempre
più pressante di essere spiati, dà vita ad una censura rigidissima che non
riguarda solo i giornali che spesso sono obbligati ad uscire con riquadri
bianchi perché una notizia è stata invalidata all’ultimo momento, ma anche le
poste. Ogni lettera o cartolina o pacco da e per il fronte, per l’interno e per
l’estero è passata sotto censura. Si calcola che per la durata del conflitto siano
state cinque miliardi le missive controllate, un numero esorbitante che intasa
gli uffici preposti e alla fine chissà quante non ne vengono consegnate.
Il disfattismo è punito con
la pena capitale, si deve vedere tutto con ottimismo e per tale motivo si
arriva al punto assurdo di negare l’epidemia che nel ‘17 comincia a diffondersi
anche in Italia e passata alla storia come Spagnola che fa centinaia di
migliaia di morti solo in Italia. Vietato parlarne, vietato perfino suonare le
campane ai funerali, come se la gente non vede parenti e amici morire. Solo
nell’ottobre del 18, all’approssimarsi della capitolazione austriaca i giornali
cominceranno timidamente a scriverne. La Spagnola colpisce duro anche in valle,
non ci sono cifre precise in merito ma a titolo di paragone è sufficiente dire
che a Cuvio i caduti in guerra risultano in 18, e quelli di spagnola sono
valutati almeno il doppio.
Un altro rapporto diretto con
la guerra sono i profughi che arrivano dalle terre martoriate a centro degli
scontri. Friulani, istriani, trentini, veneti che scappano a cui le
amministrazioni locali devono provvedere al sostentamento, gente disperata che
non sempre è ben vista perché anche da noi la situazione economica è grave. Arrivano
anche militari stranieri, sudditi del grande impero austroungarico fatti
prigionieri o che hanno disertato. Nel convento di Azzio viene alloggiato un contingente
di cechi. I comuni fanno quello che possono dando fondo alle riserve
finanziarie o chiedendo prestiti di guerra. Le fabbriche, che non sono molte,
lavorano a ritmo ridotto per via della chiusura delle frontiere e la carenza di
manodopera maschile per la qual cosa aumenta la presenza femminile. Qualcuna
poi come la Riseria Curti di Gemonio viene chiusa perché il governo decide di far
trattare il riso solo nei luoghi di produzione. Sorgono comitati d’assistenza
per le famiglie dei caduti e le più povere.
La censura arriva al punto di
negare la rotta di Caporetto spacciandola per un ripiegamento strategico al
fine di mantenere compatto il fronte interno, ma che qualcosa di più grave è
successo l’opinione pubblica lo intuisce, se non altro perché molti perdono i
contatti con i loro congiunti sotto le armi, morti o fatti prigionieri. La
tenace resistenza delle truppe sul Piave, ridà la speranza della vittoria e
così a sostegno dei soldati, viene organizzata a Cuvio una grande
manifestazione pubblica con riconoscimenti in denaro. La cerimonia avviene la
domenica 29 ottobre 1918, nel Palazzo Litta di Cuvio fra una folla di autorità
e paesani accalcata ad ascoltare gli on. Giovanni Peregrini e Angelo Pavia, e il generale
Gramantieri. Presenziano anche i soldati del 51° Fanteria di Luino e i
rappresentanti alleati, inglesi e francesi delle basi di Milano che danno
alla manifestazione un significato ed un’eco che va ben oltre i confini
provinciali.
Infine arriva il 4 novembre
con la notizia della vittoria e del termine della guerra. Trento e Trieste sono
italiane! Le campane suonano a festa e nelle chiese si intonano Te Deum di
ringraziamento. La Grande Guerra, come sarà ricordata, costa alla Valcuvia, che
conta circa 15.000 abitanti, tra morti e dispersi, l’impressionante cifra di
oltre 300 caduti, il 30% degli arruolati, numero destinato a crescere per i
morti successivi a causa di ferite al fronte e malattie contratte in guerra e non
calcolati ufficialmente per questioni meramente burocratiche. Quando i soldati
cominciano a fare ritorno dal fronte, nessun borgo può festeggiare pienamente
la conclusione del conflitto perché qualcuno manca sempre all’appello ed anche
la piccola frazione di Comacchio ha le sue vittime. Mai era successa una così
orrenda carneficina!
I MONUMENTI AI CADUTI
La morte di così tanti
giovani; figli, fratelli, mariti, padri, lascia gravi lutti in ogni paese.
Intere famiglie si ritrovano lacerate dalla perdita contemporanea di più
congiunti e sintomatico è il caso dei quattro fratelli De Ambrosis di Mombello,
caduti sul fronte o morti in ospedale o in prigionia.
È allora che si comincia a
pensare di erigere monumenti ai caduti per non dimenticare quell’inutile
strage, come la definisce papa Benedetto XV. Sorgono comitati locali allo scopo
di raccogliere soldi e mezzi e già l’anno successivo si hanno le prime
dedicazioni; semplici lapidi od opere d’artista. Alla loro inaugurazione
intervengono oratori di prestigio, avvocati, dottori, deputati come l’on
Giovanni Peregrini a Caravate, Duno e Cuvio che è il primo paese della Valcuvia
ad inaugurare una lapide il 15 settembre 1919. A Cittiglio il 4 novembre ’19
arriva l’on. Stefano Jacini. A Varese il 20 0ttobre 1923, per l’inaugurazione
del monumento in piazza Repubblica, opera di Enrico Butti, presenzia Vittorio
Emanuele III in persona. Vergobbio inaugura la sua lapide il 19 marzo 1921,
Cuveglio nel ’24 con l’intervento dell’on Luigi Gasparotto, Cavona lo farà solo
nel ’29 ma sarà un monumento d’artista con una statua dello scultore locale Giacomo
Oleari. Ferrera innalza un tempietto, Besozzo un massiccio faro.
Lo stato inizialmente non
vede di buon occhio il sorgere di così tanti monumenti, non sempre
esteticamente apprezzabili, considerandoli poco edificanti per una nazione che
deve celebrare la vittoria e non invece ricordare i lutti, ma poi, considerando
che dopo aver chiesto a milioni di italiani di combattere una guerra costata più
di 600.000 morti e pesanti privazioni, quell’atteggiamento poteva creare molto
malcontento tra la popolazione e risultare politicamente dannoso, decise di cambiare opinione.
Così, su quell’onda
emozionale, seguendo l'esempio di Francia e Gran Bretagna che già lo avevano già
fatto, anche l’Italia decide di innalzare un grandioso monumento al Milite
Ignoto inaugurato il 4 novembre 1921. Quel giorno sul S. Martino - come in
altre innumerevoli località d’Italia - in contemporanea con quella di Roma, si
celebra una imponente manifestazione con l’intervento di migliaia di persone con
Mons. Cambiano a celebrare la messa e la banda di Cuvio a suonare la Canzone
del Piave. Nel ’23, poi, con decreto del Sottosegretario Lupi, il fascismo
decreterà l’istituzione in ogni comune dei Parchi delle Rimembranze.
Fra i tanti combattenti Valcuviani
ci fu il sindaco di Cuvio Emilio Fano che ebbe un’avventura particolare, fu
infatti, inviato, dopo la rivoluzione russa, nella lontana Siberia per
contrastare, assieme a reparti di altri eserciti alleati, le truppe bolsceviche,
riuscendo a tornare dopo un lungo e avventuroso viaggio in nave, solo nel
febbraio del 1920. Quell’esperienza nella quale ottenne una Medaglia di Bronzo
nello scontro di Semenòfskoie, l’ha riportata in un lungo e minuzioso diario.
A conflitto concluso un grosso
problema presentatosi al governo è quello riguardante gli emigranti che non
tornarono a combattere per la patria allo scoppio della guerra, soprattutto
dalle Americhe, un milione di persone che per lo stato sono disertori quindi
passibili della pena capitale. La questione spinosa e complicata viene risolta
il 2 settembre 1919 con l’emanazione di un’amnistia generale che crea parecchio
malcontento soprattutto da parte di che si era comportato con eroismo negli
scontri e magari ne era uscito mutilato e delle famiglie di chi, la rigida giustizia
militare aveva dovuta subirla. Molti emigranti ritorneranno, pure della
Valcuvia, anche se poi saranno obbligati a una nuova emigrazione.
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