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PIETRO GILARDI DA CUVIO

PIETRO GILARDI DA CUVIO

Compositore, musicista e maestro di musica 'cui barbis' di Giorgio Roncari

“Öh ciòla!” Esordì mio padre quando, volendo ricostruire la storia della banda di Cuvio, gli chiesi del Gilardi, epico maestro del complesso durante il ventennio fascista. “Te sé mia che prufesor de müsica l’eva ul Gilardi! Un maester cui barbiss che el gà insegnà a meza banda. E pöö el sunava un frach de strument: la trumba, ul viulin, la fisarmonica, l’orghen e anca la vaca.”
Pietro Gilardi, o Professor Gilardi, come, con deferenza, lo chiamavano tutti, era stato un personaggio che a Cuvio aveva lasciato un segno e anch’io, sebbene nato quattro anni dopo la sua morte, ne ho sempre sentito parlare con una certa stima, e non solamente da mio padre che fu uno dei suoi più abili allievi. Erano sempre, per la verità, notizie un poco fumose, nessuno sapeva bene quando era nato e cosa avesse fatto nella vita, pareva avesse girato mezzo mondo suonando e che, intorno al 1920 era ritornato al suo paese natale.
Probabilmente era un tipo poco propenso a raccontare di sé, o forse aveva qualche magagna da nascondere. C’era chi diceva che avesse diretto le orchestre di Sanremo e di Montecarlo, che avesse scritto molta musica e forse anche un’opera e che trascriveva personalmente ogni singola partitura con bella calligrafia, particolare che senz’altro facilitò il progresso tecnico del complesso il quale, sotto la sua direzione, toccò il massimo livello artistico e il maggior numero di musicisti, arrivando a superare i cinquanta elementi. Mi raccontava il Claudino, che un anno hanno partecipato ad un concorso provinciale per bande riuscendo a guadagnare un diploma di merito. Un successo per una banda di un paesino come Cuvio.
 “Piscinott e rutundott - continuava mio padre - l’eva un pöö aristucratich, el parlava quasi semper in italian e quand el dirigeva un cuncert cun la banda el meteva sù ul frak e ul cilinder. Te duevet vidè che eleganza…” Un’eleganza rotondetta che a me faceva inevitabilmente pensare alla grazia di un pinguino. “El gà insegnà al Pino a sunà la sapa, al Bersaglier ul genis, al Cumin ul pelitun al Negher ul roll.” Andava enumerando mio padre che a dieci anni esordì in banda coll’ottavino, il più piccolo strumento che faceva il paio con la sua minuta costituzione. Una volta, quando si parlava solo il dialetto, gli strumenti musicali avevano nome bizzarri, irriconoscibili per le nuove generazioni. La sapa era il trombone a tiro, il genis, il flicorno contralto, il pelitun il basso a tracolla, mentre il roll era il tamburo rullante, e c’erano anche i ciapp, i piatti. La vaca invece era il contrabbasso.
“L’eva metù in pè anca un’urchestrina de mandulitt che la nava in gir a fa serenà e fa balà la gent. El sunava anca l’orghen in gesa.” Era ancora mio padre, pozzo di particolari, a raccontare. Altri mi dissero che fosse assai flemmatico e che dava del ‘Lei’ e del ‘Signore’ a tutti, vecchi musicisti e giovani allievi, bambini stupiti e divertiti nel sentirsi appellare Signore. Non era che una delle sue svariate manie come l’altra, tramandata nei ricordi, di interrompere, durante le accademie, l’esecuzione all’arrivo di un ritardatario per salutarlo con una stretta di mano e consegnargli le partiture. Una fisima che alla fine aveva persuaso i ritardatari, per evitare continue e noiose sospensioni, a rimandare l’ingresso in sede alla fine del pezzo.
I più parlavano di lui in relazione alla banda e alla musica ma alcuni aggiungevano particolari d’altro tipo e giuravano che fosse stato un fior d’architetto ideatore di elegantissimi palazzi a Parigi e chissà se era vero; però molta gente in paese si avvalse delle sue competenze nel disegno edile. C’era chi assicurava che fosse stato in Argentina e l’aveva sentito raccontare meraviglie di quel paese dalle praterie immense dove si andava a comprare il giornale a cavallo e si mangiavano bistecche così grandi che non ci stavano nel piatto.
A Cuvio si era fatto una certa posizione; era pure stato assunto come professore di musica nelle scuole superiori di Canonica e dava ripetizioni scolastiche. Pure le bande di Rancio e Gemonio l’avevano chiamato. Sfidando lo scandalo si era anche accasato con una donna del paese dalla quale aveva avuto una figlia. Non l’aveva sposata perché, assicuravano i più informati, aveva già una moglie separata in Germania. Sempre questi ben informati garantivano pure che avesse un violino di marca eccelsa, misteriosamente sparito poco prima della sua morte.
Quando la donna morì, le cose per lui cambiarono. Ad un certo punto, per qualche motivo che tutti sapevano ma nessuno diceva apertamente - pare fosse un poco balosso con le ragazzine - fu allontanato dalla scuola e perse il posto da organista in chiesa, cominciando così una parabola discendente che lo porterà a una vecchiaia di indigenza. Morì il 4 febbraio '49, ormai infermo ed immobilizzato a letto. Al funerale la sua banda lo accompagnò mestamente mentre si disse che dalla Germania una donna misteriosa, o forse due, giunsero per assistere alle esequie.
                                                                                 ***
Questo era quanto riuscii a mettere insieme riguardo al Professor Gilardi. Trovai anche un vecchio filmato del ’29 nel quale lo si intravvedeva dirigere la banda all’inaugurazione della nuova piazza della chiesa del paese con il suo frack da pinguino, e lo ritenni sufficiente.
Tempo dopo, però, venne da me il nipote dicendomi che doveva sgombrare casa e se fossi stato interessato potevo prendermi le scartoffie di suo nonno. Nella più assoluta confusione, sparsi sul pavimento, ci trovai di tutto: libri, foto, giornali, musiche, lettere, quaderni e altro, da riempire vari scatoloni. Con calma esaminai il tutto, lo ordinai e lo catalogai. Sui quaderni, con minuzia da grafomane, c’erano le brutte copie di scritti che giorno dopo giorno andava indirizzando a chiunque, dai colleghi musicisti alle passate conoscenze di Montecarlo o Sanremo, dai semplici avvisi per le accademie ai moduli più disparati, a vecchie amicizie femminili.
Su quelle scartoffie, con frenesia da investigatore, ci persi dei mesi e non mi fermai finché non compilai la storia della sua vita. Un lungo racconto da romanzo, interessante e divertente, di un personaggio particolare, avvincente nei vizi e nelle qualità. Molta la gente importante che aveva conosciuto, ambasciatori, onorevoli, professori e musicisti. Gli piaceva giocare al casinò e, diceva in un biglietto confidenziale, di aver messo a profitto un metodo vincente per il ‘trent-quarant’, gioco di carte molto in voga a qui tempi nelle case d’azzardo francesi. Superstizioso e scaramantico, aveva avuto momenti di fortuna e vari tracolli.
Tanta la musica che aveva scritto - elencai un’ottantina di titoli - tra cui la marcia ‘La Suisse’, quella che gli diede una certa nomea quando viveva nella Confederazione. C’erano anche lastre in piombo con incise le partiture di una messa. Soprattutto ritrovai le partiture dell’opera: ‘Quando Berta filava’, un atto semiserio su libretto di Adolf Ribaux, ambientato a Payerne, sul lago di Neuchâtel, nell'anno 1000. Storia d’amore contrastata tra il principe Rinaldo e la pastorella Pernetta, risolta in bene dall'intervento della buona regina Berta. Quest’opera venne rappresentata il 15 aprile 1911 al teatro municipale di Losanna e poi ancora tre volte in altri luoghi. Rinvenni anche la foto giovanile del ‘celebre chef d’orchestre P. Gilardi’ elegantissimo nel suo frack.
Era nato a Cuvio il 19 settembre 1877 e ancora giovanissimo emigrò come era allora usanza ed esigenza. Aveva effettivamente girato mezzo mondo, era stato in varie città svizzere, Berna, Losanna, Ginevra, La Chaux de Fonds; e francesi, Belfort, Lione, Chaumont, a dirigere bande di emigranti italiani e suonare l’organo nelle parrocchie. Aveva sostituito direttori di complessi musicali in varie parti d’Italia, persino a Reggio Calabria. A Montecarlo aveva diretto il quartetto classico del principato, suonato il pianoforte nel cinema principale accompagnando le proiezioni allora ancora mute, e tenuto uno studio d’architetto anche se non lo era. In Argentina, a Rosario, era stato, oltre che musicista, muratore, capomastro e geometra. A Sanremo aveva fondato il Conservatorio con il suo nome, diretto il coro ‘Giuseppe Verdi’ e fondato il giornale ‘Il Mondo’, del quale ritrovai numerosi numeri. Un settimanale in quattro facciate, d’attualità e cultura varia, piuttosto polemico che redigeva quasi da solo.
Per convenienza doveva essere anche bugiardo come quando, scoperta l’esistenza di Leone Gilardi, nativo di Brè sopra Lugano, un grande impresario edile molto conosciuto a Parigi, non ebbe imbarazzo nel dichiararsi parente, anche se lui era figlio di un trovatello milanese. Oppure quando, dovendo compilare qualche questionario, si divertiva a dichiarare d’essere stato diplomato in un conservatorio o un istituto sempre diverso.
Richiamato allo scoppio della Grande Guerra, fu dislocato a scavare gallerie a Cuasso al Monte, ma poi nel maggio ’17 sarà inviato al fronte; operando ad Asiago e sugli sbarramenti del Piave. Nell'aprile del ’18, entrerà nella Scuola Ufficiali di Modena e, promosso sottotenente, smistato nel torinese, alla scuola d’aviazione militare della Mandria Reale di Chivasso e quindi alla Venaria Reale dove fu congedato.
Ma le cose più interessanti furono le numerose lettere, rigorosamente in francese, scambiate con la moglie Elsa Bucholtz. Era una tedesca nata a Pohala nelle Haway, figlia di un ricco commerciante della Pomerania (oggi Polonia) che aveva i suoi interessi nell'arcipelago. Dopo la prematura morte della madre venne cresciuta in Germania da una zia. Benestante di condizione e protestante di religione, era una donna colta ed emancipata che sapeva varie lingue, amava l’arte e la pittura. Si erano conosciuti probabilmente a Losanna e comunque in quella città si sposarono nel maggio del 1911, trasferendosi poco dopo a Sanremo. Solo un anno durò la loro unione, durante il quale lui approfittò a mani basse dei soldi di lei finché il padre non chiuse la borsa.
Quello e altri fattori fecero sì che la donna lo abbandonasse ritornando in Germania. Qualche mese dopo gli fece sapere di aver dato alla luce, con un parto difficile, una bimba, di averla chiamata Sophie e di non voler più saperne di lui, dei suoi sogni astratti, delle sue pazzie, delle sue parole piumate. Non si vedranno più ma continuarono a scriversi fino all’ultimo.
Gli riuscì invece di conoscere la figlia in un incontro disastroso avvenuto a Luino quando la ragazza, poco più che ventenne, durante un giro turistico in Italia, trovò modo di farvi una sosta per conoscere il padre. Quando lei giunse in treno, inspiegabilmente lui non c’era; lo aspettò in stazione parecchio tempo e quando arrivò, spazientita ci litigò. Quattro anni dopo, la moglie gli fece sapere che la figlia, nel frattempo sposatasi, l’aveva fatto diventare nonno di un bambino, nato lo stesso giorno che il Duce aveva fatto visita al Fuhrer a Berlino e perciò l’avevano chiamato Remo, Benito, Adolfo precisando che Adolfo era, però, il terzo nome di lei.
I contatti tra i due si persero durante la guerra e fu solo nel settembre’47 che lei poté scrivergli di nuovo. Da Berlino Ovest gli raccontò come fortunatamente fossero tutti sopravvissuti anche se persero ogni bene. Gli disse qualcosa di Remo e che sperava in una risposta. È probabile che lui l’accontentò e così sarebbero attendibili anche le testimonianze di chi vide due donne misteriose al suo funerale.
A lavoro compiuto, compilai un lungo riassunto che pubblicai sul sito della Pro Loco di Cuvio. Quello che successe dopo ha dell’incredibile.
Un giorno mi arrivò una mail dalla Germania, di certo Marco Pernetta che, in uno stentato italiano, mi faceva sapere essere il figlio di Remo e pronipote di Pietro Gilardi. (Guarda le combinazioni: Pernetta era il nome della pastorella della ‘Berta’, la sua opera.) Mi spiegava che un giorno, cercando di insegnare al padre come funzionasse Google, ebbe l’idea di inserire il nome di lui e trovò il mio racconto. “Il mio papa e stato molto emozionato per vostra storia - scriveva - perche tutti gli dettagli sono 100% veri in sua memoria. Devete sapere che lui a amato la sua nonna Elsa forse un può più di sua mamma Sofia perché Elsa lui a insegnato da ragazzo tutte le chose importante per la sua vita, quando la sua mamma e stato molto occupata con il negozio e la sua vita.” Mi pregava poi, se avessi altre notizie, di fargliele avere. Rimasi a mia volta meravigliato, e in qualche modo soddisfatto e quindi gli spedii tutta la storia. Nelle mail successive che ci scambiammo, mi fece sapere che la moglie, alto atesina, tradusse la storia al padre il quale “è stato molto contento di avere tutti questi informazioni. La più grande - buona!! - sorpresa per papa: non ha mai saputo que il suo terzo prenome "Adolfo" non viene del prenome de Hitler ma viene della sua nonna! E stato molto contento!!!” E ti credo!
La sua era una spoglia tomba con una semplice croce dove stava scritto solamente il cognome e sulla quale io, che per 15 anni ho ricoperto la carica di presidente di quella banda di cui lui fu un maestro 'cui barbis', ogni tanto posavo un mazzo di fiori fino a quando il comune dispose la riesumazione e le ossa vennero poste in un ossario comune.

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