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IL BASCIALLA: UNA VITA SUL FILO DEL RASOIO

IL BASCIALLA: UNA VITA SUL FILO DEL RASOIO

LA STORIA DEL BARBIERE DI CANONICA NARRATA DAL SUO ULTIMO ALLIEVO GIORGIO RONCARI

Luigi Manfredo Bascialla che alcuni chiamavano Alfredo, ma per la maggior parte della gente era solamente ‘il Bascialla’, è stato il parrucchiere della Canonica per sessant'anni; il punto di riferimento trico - estetico dei paesi attorno. Noi bambini -e parlo della fine degli anni cinquanta- andavamo da lui solo quando c’era una cerimonia come la cresima, un matrimonio, un battesimo, insomma un anniversario importante che richiedeva un taglio speciale, un lavoro chevezzato. Allora i miei rapporti con i tosatori erano quelli di un fanciullo con il terrore della macchinetta che strappava sul collo, perché ‘cun fiö e canaj, fa prest che l’è mej’, e anche i più in gamba, come appunto il Bascialla, prima o poi un pelo te lo tiravano facendoti saltare sulla sedia. ‘Sta fermo nin’ e ti prendeva, obbligandoti a piegare il capo con una di presa di kung-fu ante litteram, col pollice a premere sulla nuca, e tu potevi solo sperare che la tosatrice non avesse avuto un altro scatto. Però dal Bascialla c’era il cavallino che era un’attrazione meglio della giostra.
Poi mi capitò di entrare in confidenza col Bascialla e fu quando, a quindici anni, in cerca di occupazione. diventai suo garzone. Normale di statura e di costituzione, pelato con qualche ruga, aveva appena passato i cinquant’anni e a me dava una bella dose di soggezione. Era stato senz’altro un bell’uomo da giovane con quegli occhi chiari che si ritrovava e i capelli biondi che, in barba a quel cognome vagamente mediorientale - in arabo barbiere si dice allaq - tradivano avi nordici. Era alquanto loquace, dalla battuta pronta, caratteristiche comuni ai barbitonsori di ogni epoca e latitudine, che lo facevano di piacevole e spiritosa compagnia, e così l’imbarazzo iniziale venne stemperato dal contatto quotidiano.
Tra un cliente e l’altro mi raccontava qualcosa di sé. Nato nel 1913 ad Abbiate Guazzone, quando era ancora comune autonomo da Tradate, ancora piccolo era venuto ad abitare a Ferrera - Ca Martin con la sua numerosa famiglia. Terminate le scuole elementari aveva iniziato come garzone di barbiere a Canonica, dal Paulin che lavorava assieme al figlio, il quale, oltre a non essere in buona salute aveva anche una gran macchia di vino che gli segnava il viso. All’occorrenza toglievano anche i denti, come praticavano in antico i barbieri che erano cerusici e mezzi chirurghi. Una volta ci aveva provato anche lui ma era stato un lavoraccio che non rifece più. Aveva appena imparato il mestiere quando, nel giro di neanche un anno, morirono prima il figlio e poi il Paulin e lui si trovò lì, giovanissimo, a mandare avanti il negozio che la vedova del Paulin gli aveva ceduto in affitto. Lo gestì per oltre mezzo secolo insegnando il mestiere a una sfilza di ragazzi dei quali io sarei stato l’ultimo.
Coi clienti, inevitabilmente, nascevano discorsi fluenti, spesso animati dove si discorreva di tutto: donne, calcio, politica, hobby, tempo, eventi della valle, meglio se un poco pruriginosi, insomma la bottega era un talk show ante litteram, un grande contenitore copiato poi dalle tv. Quando però arrivava qualche suo ex commilitone, allora era solo la guerra a tenere banco in una rievocazione di luoghi, fatti, date e persone. Lui era stato in fanteria, nella divisone Forlì e fu spedito in Albania. Non partecipò direttamente a combattimenti perché era nella sussistenza e all’allusione di essere un imboscato rispondeva che a lui interessava portare a casa la pelle.
Sem sbarcà a Durazzo’ diceva, dove avevano trovato strade fatiscenti di terra e palta che due gocce di pioggia trasformavano in piste di fango, obbligandoli a spingere a mano cannoni e camion impantanati fino a mezza ruota...’strach me àsen e cunscà me pilàt’. Erano entrati a Tirana accompagnati dalla fanfara reggimentale, poi la loro marcia era diventata un zigzagare fra Albania e Grecia e il suo racconto una cantilena di città e paesi: Elbassani, Pogradec sul lago d’Ocrida, Coriza, Tepelene, Valona, Agirocastro, quindi, in Grecia, Iannina, Eliat, Trikkala, Larissa, Volo, Lamia, e infine l’ingresso trionfale ad Atene.
Ad Atene c’era la fame nera e con una michetta potevi portare a letto la più bella ragazza della città - affermava- ma solo i primi tempi, perché dopo son arrivati i partigiani e bisognava stare attenti a non farsi tirar giù dalle spese’. Di Atene menzionava il Partenone, il Pireo e la Piazza Omonia dove di solito tenevano le parate, ne parlava come di un luogo elegante, vivace e speciale. Narrava di aver incontrato occasionalmente gente dei nostri paesi: il Nino Pancera che era attendente, il Giuanin Viola ‘tenentino da poco’, e poi quelli della banda musicale di Cuvio, l’Erminio, il Passerin, ul Tudesch, e altri che non ricordo, tutta gente che pensava di star meglio nella fanfara e invece si era trovata impegnata senza requie, a presenziare a marce, concerti e parate. A volte tirava fuori qualche parola in greco e a furia di sentirla, l’avevo assorbita anch’io tanto da contare fino al dieci.
Le schermaglie verbali più ironiche le sosteneva col Romolo Piona, il Bindin, che aveva il negozio di scarpe attiguo, già della divisione Ravenna, due volte arretrata di fronte al nemico nella campagna di Russia: ‘Divisione Lepre, basta scapaa’, lo canzanava il Bascialla. ‘Meglio un asino vivo che un eroe morto’ replicava l’altro.
Dopo l’8 settembre ‘43 il Bascialla venne preso dai tedeschi e spedito a Francoforte sul Meno, ma gli andò bene perché fu smistato in una fattoria ad aiutare un contadino. Mangiare non gliene mancò mai e oltretutto il colono aveva una figlia che si era infatuata di lui e ogni tanto la ‘guzzava’.
Tornato dalla guerra, riprese il suo tran-tran fra forbici e rasoi nello stesso negozio, che in sua assenza era stato tenuto aperto da altri, tra cui il Figaro, l’altro barbiere della Canonica, un siciliano piccolino che aveva anche la passione della fotografia. Mi raccontava, l’Alfredo, che quando, qualche anno dopo, cambiò rivestimento alle pareti, dietro ai pannelli ci trovò nascoste svariate foto fatte dal Figaro a ragazze di Cuveglio, mezze nude. ‘Varda podi mia dit chi hinn… - diceva - non posso farti i nomi’, lasciandomi così a immaginare le più belle donne del paese, senza veli. Intorno ai quarant’anni sposò la Tina d’Arcumeggia, assai più giovane di lui, dalla quale ebbe due figli: Carluccio e Josella, nome insolito che era piaciuto alla Tina.
Fra tutte, le discussioni più animate erano quelle legate al calcio. Il tifo non ammetteva deroghe o cedimenti e le lotte verbali raggiungevano il massimo dell’intensità quando a polemizzare con noi, che eravamo juventini puri, ci si mettevano il Tanino e il vecchio Nobili, sfegatati dell’ambrosiana, interisti insomma. Di politica invece preferiva non parlare perché diceva che chi ha un mestiere deve dagliela d’intendere a tutti e ragione a ciascuno, si limitava a dirmi che la politica era una baltroca che andava dove tirava il vento e c’erano i soldi, e i politici tutti bravi a mettere in pratica i comandamenti alla loro maniera: ‘settimo non rubare, ottavo róben tanta, nono fala franca’.
I proverbi già! Erano il suo pane quotidiano e alcuni erano precisi quanto lapidari come quello che rivolgeva a chi si maritava: ‘Sta attento che a sposarsi ti togli i pensieri dalla patta ma li metti nella crapa’. Ne aveva però per tutti e per ogni occasione; se li avessi appuntati, ora avrei potuto compilare un almanacco. Un altro che mi aveva lasciato un poco basito diceva: ‘Fino alla bara s’impara’ valido, ma un po’ lugubre. Di un ex seminarista disse che aveva capito che ‘i miracul ie fann i sant, ma anca i tusan quand in grand - aggiungendo poi con nonchallange - ... e cun giò i mudand’ che mi fece ridere di gusto.
Anch’io assimilai il suo spirito e ricordo che lo divertii quando dissi, giocando sulle parole, che, secondo me, in un anno i tagli canonici, quelli che nemmeno i più trascurati potevano rinunciare, erano tre: ‘Pasqua, metù lì me növ; Agost, taj de la Madona; Natal, cunscià par i fest’.
Di questo mestiere mi aveva messo in ambasce il fatto che, lunedì a parte, si lavorasse dall’alba a mezzanotte: 12 -13 ore a giornata, più le mattine dei dì di festa e fui sollevato quando, due o tre anni dopo, fu imposta la chiusura alle ventuno. Lui invece ne fu amareggiato e preoccupato. Abituato ad abbassare la clear non prima delle undici, per rialzarla subito se magari qualcuno usciva di corsa dal bar del Tzuk e lo chiamava, per lui che lavorare era una piacevole ossessione tanto che la domenica pomeriggio aveva una serie di clienti a domicilio e il lunedì i bambini del collegio di Duno da tosare, quell’ordinanza era stata una grossa prepotenza. La faccenda sfociò in un duro diverbio col vigile Vincenzo che gli aveva notificato la normativa. ‘Il lavoro va preso quando c’è! - urlava, in italiano per farsi capire meglio dall’altro che era romano - ... e quelli già in negozio li caccio via?... e le tasse poi me le paga il comune forse!?...’. Il Vincenzo rispose che avrebbe potuto finire i clienti presenti ma lo ammonì che se alle nove non avesse abbassato la saracinesca l’avrebbe multato. Il Bascialla dovette adeguarsi, però mugugnò per giorni e giorni sperando invano nel mio consenso, finché, all’improvviso se ne uscì con un inaspettato: ‘Sai che è bello andar a casa un po’ presto, così si può stare un poco con la famiglia’, anche se per finire i clienti, non arrivava a casa mai prima delle dieci.
D’estate, quando finivano le scuole, ‘per mia lasàll in gir a fa flanela’, faceva venire in negozio il figlio Carluccio, appena più giovane di me, che spesso scambiavano per mio fratello e, volente o nolente, era obbligato a farmi da cavia. La barba, invece, imparai a raderla sui menti spigolosi di certi clienti anziani, di poche palanche e ancor meno pretese ma dal pelo ispido, sudando le classiche sette camicie e sognandomi più d’una notte di sfregiarne qualcuno.
Nei periodi di maggior affluenza veniva a darci una mano, il Cuco, un vecchio barbiere padovano, singolare personaggio dalla parola fluida, inarrestabile e ‘grassa’ che, con una marcata inflessione veneta, alla maniera del Ruzante, divertiva tutti con le sue mirabolanti storie di vita, di donne e peccati che, forse per esorcizzare, intercalava con l’esortazione ‘beada a corona di frari’.
A parlare spinto uno solo poteva tener testa al Cuco, era il Franco pustin, portalettere a Varano Borghi, ma che nel pomeriggio sostituiva in calzoleria il Romolo Bindin, preso a risuolare le calzature che vendeva. Il Franco aveva fatto della chiacchera grassa, una filosofia e sparava a raffica battute, doppi sensi e facezie più o meno licenziose. Tutti i giorni ci ragguagliava delle donne sulle strade di Vergiate, famoso a quei tempi più del casotto di Mammarosa; ogni tanto arrivava con qualche curiosità sexi, e aveva sempre una storiella sconcia, una barzelletta boccacciana, una notizia piccante e noi divertiti davamo corda. Del resto le botteghe di barbiere sono sempre state palestre di erotismo con quei giornalini sconci che trovavi solo lì, come ‘Caballero’, ‘Cronaca Vera’, ‘Play Man’ da sussurrarsi a denti stretti e leggersi di nascosto, infilati in una rivista più conformista. E come dimenticare i calendarietti natalizi, piccole e profumate agendine con le donnine nude che tutti volevano, da conservare nascosti nel portafoglio accanto a qualche santino, ben lontano dagli occhi di mogli, figli e genitori. Un’etica tanto difforme da quella d’oggidì dove il nudo lo si trova in ogni dove: in televisione, al cinema e financo su ‘Famiglia Cristiana’.
Moltissimi erano i personaggi che bazzicavano la bottega, anche se non avevano bisogno del nostro servizio, passavano solo per scambiare due parole, buttar lì un pettegolezzo, una curiosità, fare una battuta, come ancora si usa nei saloni. Ricordo, così a braccio, il Fredò di Cuveglio, mezzo francese che, dopo avermelo promesso a lungo, mi fece assaggiare il pernod come se fosse nettare degli dei e invece a me parve solo anice; lo Jemolo painter-schisciaragn di Cavona, una vita a Milano a fare l’imbianchino; il Mario misiminò di Vergobbio, dal nomignolo dovuto ad un tic che gli faceva ciondolare la testa come a quei cagnolini sui cruscotti; il Zuzù di Vergobbio, un allegrone dalla parola facile e dalla mimica buffa; l’Augusto d’Arcumeggia, un po’ clochard che parlava solo italiano; il Rino Macchi di Canonica, che lui chiamava Murbell come il famoso fotografo di Varese, perché da giovane aveva una macchina fotografica; il Manzi di Cittiglio, un sacripante sbranavott uso arrivare in serata e salutare con un roboante ‘Figaroooo’; la zia Ada pumèla, dinamica e simpatica, due volte vedova perché ‘ghe nà mai asè’, come insinuava l’Alfredo. 'Tas linguascia che te me ruvinet la piaza'  stava al gioco lei divertita.
Quello che però aveva preso la nostra bottega per una sua depandance era il Giuanin Viola di Cuvio, il tenentino da poco. Non c’era giorno che non venisse a farci visita. Elegantone azzimato, amante del gioco e delle donne – cald de coa, come diceva il Bascialla - ufficialmente sarebbe stato impiegato al ‘Calzaturificio Elio’ di Luino, ma in conclusione aveva fatto la bella vita all’ombra della sorella, moglie del titolare. Sfaccendato, passava il tempo a leggere e compilare decine di schedine nella speranza di azzeccare la grossa vincita. Spesso chiedeva anche i miei pronostici promettendomi un bel regalo, ma non vincemmo mai.  Giocava in borsa, come si diceva, un vizio, per il giudizio popolare dell’epoca, comparabile al gioco d’azzardo. Insomma un personaggio da romanzo e, infatti, l’Armando Roncari lo prese a modello in alcune delle sue novelle.
Tutti gli anni, un lunedì d’agosto, io, il Bascialla, la Tina e, a volte, il Carluccio e la Josella, andavamo in Arcumeggia a mangiare polenta e coniglio cucinato dall’Olimpia, sua suocera. Una sorta di pranzo aziendale, dal momento che il 14 è S. Alfredo. Ricordo che, quando arrivò settembre,  il primo anno mi diede quindici giorni di ferie. Il secondo, siccome rimanevo a casa, mi chiese di lavorare al sabato ‘che, te se, ghè semper pien’. Il terzo mi disse che mi dava tre settimane però ‘vegn anca al venerdì che sum ciapà’. Il quarto aggiunse anche il giovedì ‘parché ghè mercà’. A me però quel sistema di fare le ferie a pezzetti, non garbava, e siccome avevo preso la patente e una vecchia Fiat 500, pensai bene di andarmene in vacanza per quindici giorni filati.
Cinque anni durò il mio apprendistato dal Bascialla, accompagnati da tre corsi d’acconciatore a Varese, quindi decisi di andarmene e fare nuove esperienze. Per breve tempo fui a Milano e poi per un paio d’anni a Laveno. Quando morì il Giulin Troll, il vecchio barbiere di Cuvio, per mesi il sindaco Pancera mi incalzò perché mettessi su bottega: ‘se pò mia lasà ul paes senza barbee - non perdeva occasione di ripetermi ogni volta che mi vedeva - o te spècet che ‘nquai vün de fò te roba la piaza?’. Eh no! Non si poteva lasciare Cuvio senza barbiere, non era mai successo nei secoli indietro, né tanto meno farsi portar via la piazza da estranei e così alla fine aprii la mia bottega in paese, anche se avevo solo ventidue anni.
Ogni tanto passavo a salutare il Bascialla, ne aveva piacere. Il suo attaccamento al lavoro si faceva maggiore col passare degli anni, tanto che quando il collegio di Duno chiuse, trovò un localino a Masciago, dove impegnare i lunedì pomeriggio. Non appese il rasoio nemmeno quando dovette lasciare il negozio perché l’edificio richiedeva restauri. Trasformò il garage di casa sua in una botteguccia e continuò ad accontentare i fedelissimi. A settantatré anni ebbe un colpetto al cuore. ‘Roba de nott’, come mi assicurò quando andai a trovarlo in ospedale. Era la settimana di Pasqua e la sua preoccupazione era tornare a casa per riaprire bottega. Fu dimesso in tempo per il Sabato Santo e, benché i suoi lo sconsigliassero, lavorò anche la settimana successiva, finché una seconda botta, lo stroncò. Era una domenica mattina, giorno giusto per morire per uno come lui che aveva avuto tempo solo per il suo mestiere. Lo misero via il martedì. ‘L’eva mej de lünedì’ - mi disse contrariato comparendomi in sogno, aggiungendo, e spero che qualcuno sia disposto a credermi, di non perdere mezza giornata di lavoro per il suo funerale - ‘chè var püsè ul laor’.
 

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